Tolto il colpo di scena del terzo magnifico episodio di Succession di cui tutti parlano (ma tutti chi), che poi colpo di scena non è, cosa c’è che, di questi tempi, stai lì a guardare con vero e vivo interesse? Cosa non ti fa dire “thank you, next” dopo una puntata e mezza? Cosa acchiappa la tua attenzione al di là dell’hype ormai incontrollato per cui, per dire, il (comprensibile) fenomeno nazionalpopolarissimo Rai Mare fuori diventa culto che piace alla gente che piace solo se arriva su Netflix? Cosa, a proposito di Netflix, non grida “algoritmo” da ovunque la si pigli e dunque toh, forse metto giù il cellulare e sto a vedere che succede?
Non mi sono strappato le vesti per Lo scontro, traduzione italiana scarsamente efficace e comunque piatta dell’originale Beef, che pure si trascina dietro hype, algoritmo, e tutto quanto: produce del resto A24, lo studio ormai ex indie fresco del successo generalista di Everything Everywhere All at Once e, su schermi più piccoli, già artefice di Euphoria. Però son rimasto lì a guardarla fino alla fine (dieci puntate, brevi ma comunque troppe, come sempre), e mi pare già un enorme successo. L’altro successo è trovare una serie come questa nell’ormai standardizzatissimo (e, sì: totalmente algoritmico) carnet di Netflix.
Lo scontro del titolo è presto detto: un operaio edile di origine coreana che ormai pensa solo a farla finita e un’imprenditrice ramo lifestyle stile goop si direbbe vietnamita e sposata a un giapponese evitano per un pelo un incidente tra le rispettive macchine nel parcheggio di un Leroy Merlin (per capirci). Lei però alza il dito medio contro di lui fuori dal finestrino, lui si incazza e si mette a inseguirla per le strade di Los Angeles. Ne deriva una serie di inghippi e di intrighi che – non è spoiler – farà capire loro che sono molto più simili di quanto pensino (no: di quanto accettino), eccetera eccetera.
Niente di più, ma è bella la mano dell’ideatore Lee Sung Jin, coreano di nascita operante negli Stati Uniti (Undone), per questa storia che sai ovviamente dove ti porterà, ma non sempre e necessariamente come. Mi ha ricordato Giri/Haji, bellissima serie BBC ma, diciamo così, di matrice parimenti asiatica che partiva come un thriller, diventava un mélo, finiva in musical. Qui è un po’ lo stesso, c’è la satira sociale e una specie di orrore politico (certo più tenue) alla Jordan Peele, qualche deriva demenziale, un po’ di romance, un finale letteralmente psichedelico che è quasi un pezzo di teatro beckettiano, o di cinema jarmuschiano, però molto tutto molto sudcoreano.
Sono molto giusti e bravi i due interpreti principali – Steven Yeun (Minari, Nope) e Ali Wong, stand-up comedian già in quel filmetto stupidino con Keanu Reeves Always Be My Maybe (qui Finché forse non vi separi) – e sicura la regia, e belli i tanti dettagli, a volte molto intelligenti a volte solo furbetti, disseminati qua e là: il cuociriso che suona Kelly Clarkson; gli orribili vasi del ricco che ha bisogno di fare l’artista (il marito della protagonista, che è anche l’uomo meglio vestito nella storia delle serie); la fissa per quel panino di Burger King; le case di vetro e di cemento; la suocera pazza che pare scritta da Tennessee Williams se fosse nato a Seul; tutta quella musica revival anni ’90; gli occhiali con le lenti ottagonali di lei; i fornelletti da aspirante suicida di lui; le messe evangeliche della comunità asiatica angelena; i tableaux d’arte contemporanea che introducono ogni puntata.
È una serie cool che sa (a volte colpevolmente) di esserlo, ma che traghetta bene una storia e sa raccontare un piccolo mondo già visto ma così preciso da sembrare quasi inedito. La “questione asiatica”, dopo Parasite e Everything Everywhere All at Once, è evidentemente calda a Hollywood, gli asian American si stanno ripigliando tutto quello che è loro, ma, come in questo caso, con grande senso del racconto, e una certa originalità che, di questi tempi dicevamo omologatissimi, di certo non guasta.
A24, che ha preso quest’onda prima di altri per intelligenza e anche per furbizia, è l’interlocutore giusto in questo senso. È la Miramax di questi anni, il piccolo studio del cinema (e della tv) cosiddetto boutique che inciampa nel mainstream e poi lo manomette dall’interno. Forse come la Miramax la bolla esploderà (speriamo per altri motivi), ma per ora strategicamente non sta sbagliando un colpo. Nemmeno Beef. Lo spettatore annoiatissimo dell’anno 2023 non ne sarà certamente sconvolto (non io), ma comunque ringrazia: ha passato due sere discretamente divertenti ed è già un mezzo miracolo, nello scanalamento streaming a cui è eternamente costretto.