I tantissimi italiani che, per lunghi mesi, hanno atteso questo weekend di settembre come prima occasione utile per attivare la propria settimana di prova di Paramount+ non resteranno delusi dalle tre puntate, per ora disponibili, di Vita da Carlo 2.
La seconda stagione della serie televisiva autobiografica di Carlo Verdone si apre con un Verdone-personaggio che, superata la soglia dei settant’anni e messa da parte l’improbabile carriera da sindaco di Roma, ha deciso di intraprendere l’avventura – questa invece del tutto impossibile – di fare del cinema d’autore, da regista che non accetta compromessi, oggi.
Siamo al firmacopie di un libro realmente pubblicato da Verdone nel 2021, per Bompiani: La carezza della memoria (peraltro tra i più fulgidi esempi di prosa prodotti da un cineasta italiano). In coda per l’autografo c’è anche un uomo smilzo, anzianotto, un po’ male in arnese. È l’attore Fabio Traversa, tra i Compagni di scuola del 1988 quello, già allora, invecchiato male per antonomasia. Qui interpreta sé stesso in una veste ulteriormente metainvecchiata tanto che sembra, ancora una volta, irriconoscibile a Verdone. Ma, dopo qualche attimo di forte imbarazzo, i dubbi si sciolgono: Fabris!
Non è un caso che Verdone abbia deciso di ripartire proprio da Fabris. L’intero messaggio subliminale che, in effetti, attraversa i tre episodi non è altro che un lungo, interminabile “Guàrdete com’eri, guàrdete come sei… Me pari tu’ zio!” rivolto solo letteralmente al povero Traversa e, metaforicamente, a Carlo stesso.
Il riscatto di questo Fabris interiore diventerà il vero obiettivo del Verdone-personaggio. Scopriremo presto come il Verdone-autore, in verità, ha già accettato tanto di buon grado gli stessi compromessi che il Verdone-personaggio sembrava determinato a rifiutare da renderli fulcro comico e drammatico di questo suo nuovo lavoro.
Nulla resterà intentato di fronte alla necessità che si avveri ancora la vera magia cinetelevisiva di Verdone: e cioè che il pubblico più vasto possa accedere, tramite la scrittura e la recitazione, al suo spirito malinconico che, quasi suo malgrado, fa tanto ridere; e alla sua visione del mondo, costruita per metà da gustose piccolezze e per l’altra da grandezze inattese.
Un esempio su tutti: il casting di un cantante vicentino biondo nel ruolo di Verdone da ragazzo, per il film che il Verdone-personaggio vorrebbe girare. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare Sangiovanni.
Il produttore del film (graditissima conferma uno Stefano Ambrogi che, in questa stagione più che mai, sembra voler rendere omaggio al principe dei caratteristi Mario Brega) fa presto a definire il soggetto prescelto: “Il racconto della mignotta”, la storia su cui Verdone vorrebbe lavorare è tratta dal capitolo più profondo e toccante del suo volumetto di memorie, che racconta il suo incontro con una prostituta di Monti, “Maria Effe”. (Tra i breghismi di un Ambrogi in stato di grazia si segnala quello con cui apostrofa Sangiovanni mentre decanta le dotazioni del domicilio messogli a disposizione: “A Sangiovà, nun sai che è ’sta doccia emozionale, tutta colorata!“).
Sublime come Verdone risolva con una sola scena, in cui dichiara apertamente che Sangiovanni sarebbe inadeguato, tre suoi problemi fondamentali: 1) denunciare il fatto di non poter fare cinema come vorrebbe, al netto di eventuali imposizioni sangiovannesche, reali o fittizie; 2) raccontare la vicenda attraverso una serie televisiva reale; 3) farci morire dal ridere mentre sente recitare il ragazzo in questione non solo con accento, ma in dialetto veneto. Sangio rappresenta l’algoritmo personificato, il talent scelto via follower che rischierebbe di deregionalizzare anche uno dei volti più romani della storia del cinema. Carlo, allora, ne diventa l’antidoto umano.
Sangiovanni potrebbe anche non interpretare mai quel ruolo (sebbene il trailer di stagione ci mostri il contrario), ma la sua missione impossibile, da attore giusto al posto giusto, sarebbe già compiuta dopo quella prima scena.
Prende forma, così, il tema di fondo della nuova stagione: non averne uno all’infuori della ricerca di un equilibrio precario – ma essenziale per un veterano in piena attività – tra passato e presente, velleità e possibilità, mestiere e vita. Forse l’intera serie potrebbe essere un modo particolarmente ingegnoso e artistico di esorcizzare il fatto di dover fare proprio questa serie.
(C’è solo un elemento della sottotrama dedicata a Maria Effe che, un po’, ci rattrista. È la paura che Verdone, a furia di esorcizzare, possa finire per non fare più quel film nella realtà.)
Il piglio, insomma, è più scanzonato rispetto allo scorso anno. Uno dei leitmotiv del Carlo prima stagione era lo spauracchio dei “personaggi” (una sorta di sindrome di Mimmo) che gli venivano continuamente sollecitati on demand da passanti e amici degli amici. Oggi è proprio Furio a intervenire in aiuto di Carlo nel rimorchiare una scrittrice di libri per l’infanzia bella e pazzerella, interpretata da Stefania Rocca (e sembra essere destinato ad andarci più lontano rispetto a quanto potè fare con la farmacista di Anita Caprioli).
Le tre puntate da ieri in streaming ci lasciano sì ancora a digiuno di apparizioni illustri come quella del Gabriele Muccino manesco prefigurato nel trailer (o dell’attesissima reunion post Viaggi di nozze con Claudia Gerini), ma ci hanno donato tuttavia molteplici occasioni di capire che la vera guest star della stagione è nient’altro che l’onestà intellettuale.
L’emblema migliore del bilanciamento tra forze del mercato e dell’ispirazione attuato da Verdone è senza dubbio il remake del balletto di Borotalco. La scena avrebbe potuto limitarsi a essere un caso epocale di fan service a beneficio di qualunque italiano con abbastanza sale in zucca da aver memorizzato la coreografia di quello storico passo a due, e il successo sarebbe comunque stato assicurato. Invece Verdone ha fatto di più.
Secondo la vulgata, prima di assurgere all’immortalità grazie al film del 1982, la “danza” di Borotalco era stata improvvisata al cospetto dell’intera classe di liceo in cui Verdone e De Sica erano compagni di banco. In Vita da Carlo 2 quelle mosse gioconde sono ripetute dai due amici e colleghi invecchiati di quarantuno anni davanti a un’aula ormai vuota, e l’episodio smette di far ridere esattamente nel momento in cui comincia, del tutto inaspettatamente, a far piangere. È vero, il cazziatone del prete che li sorprende in un momento particolarmente equivoco prova ad alleggerire il tono generale, ma il suo sforzo non basta a non rendere la scena, per ora, la vera perla drammatica della serie, prodotta e gelosamente custodita nella conchiglia della commedia.
Nella nuova confezione Paramount+, Vita da Carlo non si configura più solo, come fu per il primo capitolo (ancora disponibile su Prime Video), una serie tv di stampo psicanalitico in cui annegare i propri dispiaceri cinematografici – o politici-civici, o esistenziali-mediatici (“Facce Mimmo!”) – ma come una sorta di laboratorio in cui ritrovare più autenticamente il contatto con una realtà in trasformazione. Una vera e propria bottega di giovani autori (merito non da poco, quello di Verdone, di aver deciso di non tirare a indovinare nella sensibilità delle nuove generazioni, ma di riscoprirla attraverso il confronto con un gruppo di lavoro che scende anagraficamente fino al trentunenne Luca Mastrogiovanni).
Verdone ha lo straordinario merito di divertirsi e divertire mentre compie un grande sacrificio. In Vita da Carlo 2 non appare più infatti solo come autore, co-regista e attore, ma anche e soprattutto come personificazione di un intero mondo, interiore ed esteriore, una piattaforma culturale fattasi uomo, più determinante per la fortuna della produzione di qualunque sia quella di streaming scelta per la sua distribuzione; l’unica possibile costante umana ed esistenziale di un percorso, per forza di cose anche commerciale, che vorremmo durasse ancora per molte stagioni (le pose della terza cominceranno già questo novembre).
Vita da Carlo potrebbe ritagliarsi un possibile futuro da Curb Your Enthusiasm italiana, in cui, in maniera similmente continuativa e autobiografica, l’umorismo nero e disumano di Larry David farebbe posto a quello malinconico e delicato di Carlo Verdone. Le differenze tra i due titoli non si fermano certamente qui (Los Angeles non è Roma, Richard Lewis non è Max Tortora), ma entrambi vanno presi in esame quali casi paralleli di originale e riuscita rappresentazione del bestiario antropologico che l’anima di un comico maturo e di genio, sottratta al riposo sugli allori, compila ogni volta che esce di casa o si guarda allo specchio.
Auguriamo pertanto a Carlo Verdone, se non altrettanta persistenza rispetto al suo eccentrico e popolarissimo fratello nordamericano da undici stagioni, perlomeno di riuscire allo stesso modo nella missione, ardua ma così commercialmente e poeticamente soddisfacente, di trasformare la propria fetta di mercato audiovisivo – e, di conseguenza, il proprio destino creativo – in sé stesso e mai viceversa.