In un episodio della nuova epopea sulla Seconda guerra mondiale Masters of the Air (dal 26 gennaio su Apple TV+), un personaggio crolla per la stanchezza e dorme durante gli eventi del D-Day, così memorabilmente drammatizzati in Salvate il soldato Ryan. In un altro, ci rendiamo conto che diversi personaggi sono detenuti nello stesso campo per prigionieri di guerra che fece da sfondo al classico del 1963 La grande fuga, e che i nostri eroi non avevano idea che la fuga stesse avvenendo fino a molto tempo dopo il fatto.
Il fatto che tra una scena e l’altra di Masters of the Air vengano messi in scena momenti resi iconici da due famosi film sulla Seconda guerra mondiale non è di per sé un problema. Steven Spielberg, che si riunisce come produttore insieme al sodale Tom Hanks per il seguito di Band of Brothers e The Pacific (questa volta per Apple invece che per HBO), ha già realizzato Salvate il soldato Ryan, dopo tutto. Ma è un elemento emblematico di un problema più ampio alla base di questo nuovo progetto, in cui i punti chiave della Storia e gli archi narrativi dei personaggi continuano a verificarsi fuori dallo schermo.
Adattato dal veterano di Band of Brothers John Orloff, che ha adattato il libro di Donald L. Miller, Masters of the Air racconta la storia del 100° Bomb Group, un’unità di soldati che eseguiva raid di bombardamento sulla Germania. I loro aerei si chiamano B-17 Flying Fortresses, anche se sembrano fragilissimi, mentre li vediamo impiegati nelle missioni che si considerano riuscite se la metà degli equipaggi torna viva (una volta, soltanto un aereo riesce a tornare).
All’inizio, un pilota si lamenta del fatto che un amico non lo abbia avvertito di quanto sarebbe stato orribile ogni volo. “Non sapevo cosa dirti”, ammette il compagno, “ormai l’hai visto”. Ma il primo pilota risponde: “Non so cosa ho visto”. Questo è un problema costante di Masters of the Air. Possiamo dire cosa sta accadendo, dato che le battaglie aeree sono splendide (anche se a volte palesemente realizzate in CGI), ma non sempre a chi sta accadendo. Talvolta Band of Brothers ha avuto problemi a farci distinguere un gruppo dall’altro, tra quelli che indossavano la stessa uniforme; a questo, Masters of the Air aggiunge le maschere d’ossigeno e gli elmetti da volo: un equipaggiamento autentico che tuttavia toglie molta potenza alle sequenze di combattimento, perché è impossibile tenere traccia di chi è appena stato ferito, o anche di quale aereo stiamo vedendo.
È una gag ricorrente che i migliori amici Gale Cleven (Austin Butler) e John Egan (Callum Turner) siano soprannominati rispettivamente Buck e Bucky. Ma in generale, i soldati sono così intercambiabili che è come se si chiamassero tutti Bucky. Anche quando possiamo vedere i loro volti e i loro capelli, sono definiti solo da un tratto caratteriale, due al massimo. Buck è un tipo alla mano e vuole tornare dalla fidanzata che ha lasciato a casa. Curt (Barry Keoghan) è… di New York? Rosie (Nate Mann) diventa il personaggio centrale per un po’, ma solo dopo essere stato introdotto in fretta e furia, risultando completamente vuoto al di fuori della sua eccessiva dedizione al lavoro. Crosby (Anthony Boyle) soffre di mal d’aria e di scarsa autostima e funge da narratore, ma non lo capiamo più a fondo degli altri. Bucky è il personaggio più avvincente, soprattutto grazie alla grande energia à la Adam Driver di Turner, interpreta lo stereotipo del maschio alfa spavaldo che l’America non “produce” più, di questi tempi. Butler, una star più grande di quelle che hanno avuto in passato le produzioni di Hanks/Spielberg, punta a una sorta di stoicismo da divo hollywoodiano d’epoca, senza però riuscirci. (Tra tutti, Keoghan sembra l’attore più plausibilmente anni Quaranta del gruppo, ma ha una parte troppo risicata.)
Laddove Band of Brothers aveva forse troppi personaggi, riusciva comunque a raccontare una piccola storia all’interno di una sola compagnia di paracadutisti. Man mano che Masters of the Air prosegue, la storia deve dividersi tra le tante missioni del 100° Bomb Group, i diversi membri dell’equipaggio abbattuti che cercano di sfuggire alla cattura in Francia, vari amici che finiscono insieme nello stalag della Grande fuga, qualcuno che svolge un lavoro di intelligence insieme alla Resistenza francese, e altro ancora. Il penultimo episodio introduce i Tuskegee Airmen, un celebre gruppo di piloti da caccia neri (uno dei quali è interpretato dal nuovo protagonista di Doctor Who Ncuti Gatwa, a cui non viene però dato quasi nessun dialogo, e tanto meno un personaggio da interpretare), che combattevano battaglie in una parte del Vecchio Continente completamente diversa da quella del 100°. In teoria, è ammirevole che queste produzioni, in precedenza interamente bianche, cerchino di essere più inclusive nel raccontare le loro storie. Ma i piloti Tuskegee vengono introdotti così tardi – e sono così tangenziali – da sembrare un mero contentino. Cercando di raccontare tante storie diverse contemporaneamente, Masters of the Air rende un cattivo servizio a quasi tutte. Quando i personaggi prendono decisioni importanti, spesso dobbiamo capire da soli il perché. E quando alcuni di loro non sopravvivono a una missione, la cosa non ci fa soffrire più di tanto, perché li conoscevamo appena.
Alcune parti sono assolutamente stupefacenti da vedere, e altre sono emotivamente efficaci. Non si tratta dunque di un fallimento, quanto di una delusione. Band of Brothers è diventato un classico per molti, che continuano a riguardarlo. The Pacific è troppo straziante per invogliare ad essere rivista, ma basta una volta per apprezzare la potenza con cui viene raccontata la storia. Masters of the Air manca in definitiva dello spirito avventuroso del primo e della solennità emotiva del secondo. A differenza dei bombardieri del 100°, solo occasionalmente centra il bersaglio.