«Che poi, si sa, sono le donne le peggiori nemiche delle donne»: è una frase che si sente pronunciare spesso e con facilità (generalmente da chi, a sua volta, per le donne non fa un granché). A uno sguardo superficiale, sembrerebbe pure la tesi di Mrs. America, la miniserie con Cate Blanchett (anche produttrice) che è finalmente partita su TimVision l’8 ottobre, dopo essere stata pubblicata in USA su Hulu la scorsa primavera. Perché, a prima vista, la protagonista, realmente esistita, di Mrs. America, interpretata da una Blanchett meravigliosa e terribile come ai tempi di Galadriel tentata dall’Anello, è una delle peggiori nemiche che le donne abbiano mai avuto.
Phyllis Schlafly, si chiamava, e, anche se il nome non vi suona familiare, potreste averla già incontrata, e proprio in una serie tv. Per esempio in The Handmaid’s Tale, la serie distopica tratta dal Racconto dell’ancella di Margaret Atwood (anche questa è disponibile su TimVision, e la prima ottima stagione pure su Amazon Prime Video): Serena Joy, l’algida e crudele moglie del Comandante, inguainata negli abiti color ottanio che la identificano come Moglie nella rigida gerarchia dei ruoli femminili imposta dal regime sessista di Gilead, è stata ispirata ad Atwood proprio da Schlafly. Negli anni ’80, quando la scrittrice canadese lavorava al suo romanzo più celebre, Schlafly era una presenza ricorrente nei salotti televisivi e nei dibattiti politici statunitensi, dove ribadiva come il luogo naturale della donna fosse, a suo dire, tra le mura domestiche e definiva la sentenza Roe v Wade – quella che garantisce il diritto all’aborto e che anche Amy Coney Barrett, la giudice della Corte suprema neonominata da Trump, vorrebbe cancellare – «la peggiore decisione mai presa nella storia».
Molti anni prima, nel 1960 in cui si svolge la terza stagione di The Marvelous Mrs. Maisel, Phyllis Schlafly si scagliava contro nientemeno che Richard Nixon, da destra: lo considerava, pensate un po’, «troppo liberale» per alcune sue dichiarazioni contro la segregazione razziale. A un certo punto, nella serie di Amy Sherman Palladino, Midge Maisel dovrebbe, per il suo secondo lavoro di speaker radiofonica, recitare in diretta alcuni spot politici di Schlafly, esplicitamente razzisti e discriminatori. Mini-spoiler: si rifiuta, e la definisce «Satana».
Quel che succede tra il 1960 di Mrs. Maisel e il 1985 del Racconto dell’ancella è raccontato in Mrs. America, nove ottimi episodi creati da Dahvi Waller (già sceneggiatrice di Mad Men e Halt and Catch Fire), quasi la metà diretti dai registi di Half Nelson e Captain Marvel Anna Boden e Ryan Fleck. Si comincia nel 1971, quando il Congresso, sulla spinta dei movimenti per i diritti civili e di liberazione della donna degli anni ’60, approva a larga maggioranza l’Equal Rights Amendment, un emendamento alla costituzione tanto semplice da apparire banale («la parità dei diritti davanti alla legge non sarà negata o ristretta sulla base del sesso») e che per diventare legge ha bisogno di essere ratificato da almeno 38 stati entro il 1979. Mini-spoiler: non succederà, l’ERA non è mai diventato legge, e la colpa (o il merito, per gli ultra conservatori che la idolatrano) è almeno in parte di Phyllis Schlafly, che organizzò un movimento dal basso di casalinghe e contrastò le istanze femministe in ogni modo possibile, fino a fermare la marea, ricacciandola nel riflusso e nel disimpegno degli anni ’80.
Attenzione, però, non lasciatevi ingannare: nonostante la sua protagonista, Mrs. America non è una serie anti-femminista, semmai proprio il contrario. Quand’è stata annunciata si sono scatenate polemiche da sinistra, da parte di chi pensava che lo show avrebbe umanizzato Schlafly al punto da giustificarla o, peggio, ne avrebbe fatto un’eroina del politicamente scorretto. Ma – e sarebbe buona norma farlo sempre – per criticare qualcosa è prima il caso di vederla, e Mrs. America, dopo un episodio pilota dedicato alla Schlafly di Cate Blanchett, utilizza le successive puntate per illuminare, in ognuna, una leader femminista del tempo, più o meno nota: come Gloria Steinem (Rose Byrne), icona anche fashion in capelli sciolti e occhialoni Seventies, grande giornalista e co-fondatrice della fondamentale rivista Ms.; come Shirley Chisholm (Uzo Aduba, che per il ruolo ha vinto un Emmy), prima deputata afroamericana e prima donna a candidarsi a presidente degli Stati Uniti; come Betty Friedan (una Tracy Ullman strepitosa), l’autrice della Mistica della femminilità, uno dei testi-scintilla che accese il femminismo della seconda ondata. E molte altre: lasciamo alla visione il piacere di scoprirle, perché, oltretutto, la serie ha una scrittura acuta e coinvolgente, una ricostruzione d’epoca azzeccata, una colonna sonora trascinante e la straordinaria capacità di restituire lo spirito del tempo in cui è ambientata.
Ma la domanda resta, e anzi potrebbe pure uscirne rafforzata: con tutte queste figure storiche incredibili e pochissimo raccontate a disposizione, perché scegliere di concentrarsi proprio su Schlafly, la loro discutibilissima oppositrice, rischiando pure di regalarle un’aura di fascino antieroico? La stessa Gloria Steinem ha criticato schiettamente la serie, sostenendo che in realtà Phyllis e il suo movimento non contassero granché, che fossero solo una facciata sfruttata da interessi economici ben più potenti, minacciati dall’emancipazione femminile. Una miniserie televisiva, però, non è un documentario né un libro di storia, e il personaggio di Schlafly, come lo raccontano Waller e la sua writers room (scontentando, e molto, gli spettatori conservatori, naturalmente), è un ottimo filo conduttore narrativo nonché la miglior risposta a quell’insopportabile adagio su «le donne sono le vere nemiche delle donne». Schlafly era una donna spietata, intelligente e, soprattutto, ambiziosissima: ma, proprio perché donna, nessuno la prese davvero sul serio fino a quando non diventò l’utile volto della controrivoluzione. Lo disse anche Steinem, allora, sottolineandone la paradossale ipocrisia: «Schlafly may be the most liberated woman in America». Organizzava comizi, viaggiava, faceva lobbying, gestiva un’associazione capillare, dalla seconda metà degli anni ’70 il suo endorsement era corteggiato da tutti i politici repubblicani (anche da Ronald Reagan, che lei appoggiò e probabilmente aiutò a vincere). Si proclamava «angelo del focolare» e «devota al marito», quando in realtà si adoperava per fare tutto il contrario. Era rinchiusa nella stessa gabbia che il movimento di liberazione della donna cercava di distruggere, ma invece di unirsi alla lotta per ribaltare lo status quo, decise di utilizzarlo a proprio vantaggio, per il proprio potere, così preservandolo. È una dinamica che non smette, ancora oggi, di accadere.
Perché, come le migliori narrazioni storiche sanno fare, è dell’oggi che parla, soprattutto, Mrs. America. Ed è per questo che scegliere Schlafly come personaggio principale è utile: perché in questo modo la serie può staccarsi dal pericolo congenito in ogni biopic sui diritti civili, quei bei film che scaldano il cuore, che ci fanno stare bene perché, immersi nella luce dorata della nostalgia, ci rassicurano sul fatto che il passato è passato, che sì, era terribile, ma oggi per fortuna è tutto cambiato, tutto diverso. Molte cose sono cambiate per le donne, certo – e grazie alle lotte femministe, e di nessun altro. Ma molte, moltissime altre ancora no. La maggior parte delle battaglie combattute in Mrs. America sono ancora in corso: l’ERA non è mai stato approvato, i diritti riproduttivi sono sotto attacco più che mai, la disparità di salari tra uomini e donne e le discriminazioni sul lavoro continuano, le molestie, la violenza domestica, i femminicidi pure. Mrs. America ci parla dell’oggi anche perché dell’oggi è un’origin story: per vincere, Schlafly propagò fake news, manipolò la verità, demonizzò le avversarie, si alleò con frange razziste vicino al Ku Klux Klan e con la destra evangelica più reazionaria, introducendo nel partito repubblicano quelle componenti estreme che oggi vediamo al potere, mentre sventolano i cappellini rossi MAGA, scavando quel solco polarizzante che sembra dividere ineluttabilmente l’America e il mondo.
Allora, ecco, non sono le donne le peggiori nemiche delle donne, ma un sistema che si rifiuta di prenderle sul serio, di considerarle alla pari, che tenta di ricacciarle sempre ai margini, anche relegando la loro storia a un interesse di nicchia, e le loro istanze politiche a un problema di secondo piano. Anche per questo Mrs. America è una serie di cui avevamo molto bisogno, indipendentemente dal genere cui apparteniamo: perché colma lacune, illumina un sistema in cui siamo ancora immersi e dice ad alta voce che le conseguenze di un mondo ingiusto e diseguale, prima o poi, le paghiamo tutti.