Nadia/Natasha si specchia. Nella prima stagione di Russian Doll, dopo ogni morte – che fosse tragicomica, creativa, inaspettata, slapstick o splatter – si ritrovava nello stesso punto, nella stessa casa, dentro un bagno, davanti a uno specchio. La stessa canzone – l’«allegramente apocalittica» Gotta Get Up di Harry Nilsson, il cui utilizzo ripetuto ha fatto schizzare verso l’alto il budget dello show – risuonava in sottofondo (e alla millesima volta, dopo la millesima morte, cominciava a dare un tantino ai nervi) e a Nadia/Natasha non restava altro da fare che alzarsi, appunto, e ricominciare da capo.
Nadia è Nadia Vulvokov, sviluppatrice di videogiochi di Manhattan, accento newyorkese inconfondibile, voce più che roca per le troppe feste e sigarette, una massa di capelli rossi sopra gli occhi perennemente strabuzzati d’incredulità, e un gatto altrettanto rosso col vizio della fuga pericolosa. Natasha, invece, è Natasha Lyonne, attrice che frequenta schermi hollywoodiani dalla metà degli anni ’80, cioè da quando aveva sei anni. Nadia e Natasha, in Russian Doll, non si specchiano mica per caso, anzi, hanno un sacco di cose in comune: sono entrambe ebree newyorkesi, hanno entrambe lontane origini ungheresi, entrambe sono discendenti di sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, entrambe hanno vissuto svariate vite ed entrambe, a morire prematuramente e per davvero, ci sono andate parecchio vicine.
Anche la seconda stagione di Russian Doll – su Netflix dal 20 aprile, oltre tre anni e una pandemia globale dopo la prima, uscita nel febbraio del 2019 – non era scontato che sarebbe esistita. Non solo perché con Netflix la sopravvivenza delle serie oltre un primo ciclo d’episodi è sempre incerta fino all’ultimo, ma soprattutto perché Russian Doll, con la sua struttura alla Ricomincio da capo che mescolava dark comedy e sci-fi surreale alla Ai confini della realtà con un approfondito, e a tratti struggente, scandaglio esistenziale, spezzava il suo ciclo di morti e resurrezioni alla fine della prima annata, trovando una risoluzione soddisfacente e all’apparenza autoconclusiva. Ma il successo è stato travolgente, oltre che strameritato, e dunque eccoci qui, tre anni e passa dopo: per Nadia/Natasha è il momento di un altro viaggio nel tempo, anche se questa volta sembra più letterale che esistenziale. Salita su un treno della metropolitana newyorkese, Nadia scende, alla fermata successiva, nel 1980. Dopo l’esperienza della prima stagione, ormai, sa che opporsi alle assurdità spazio-temporali cui la sottopone la sua stramba esistenza non ha senso, e dunque si abbandona a questa nuova esperienza dai contorni sempre più inquietanti (non vi diremo di più, perché lo spoiler sarebbe imperdonabile): anche qui, vedrete, le superfici riflettenti e l’atto di specchiarsi giocheranno un ruolo più che mai cruciale.
Anche per Natasha Lyonne stessa. Che della prima stagione risulta co-creatrice insieme alla regista e sceneggiatrice Leslye Headland (The Wedding Party) e alla produttrice Amy Poehler (l’ex star del Saturday Night Live e protagonista di Parks and Recreation che nell’ultimo decennio ha portato a battesimo ottimi titoli altrui, primo fra tutti il gioiello inedito in Italia Broad City): basta scorrere i crediti di quei primi episodi per notare un coinvolgimento via via maggiore di Lyonne, che del finale è accreditata come unica sceneggiatrice e regista. Di questa seconda stagione è anche unica showrunner e, nuovamente, è tornata dietro la macchina da presa per firmare la regia di molte puntate. Un’impresa non da poco, considerato che la sua Nadia è mattatrice e protagonista assoluta, praticamente sempre in scena e impegnata in un tour de force attoriale di livello elevatissimo, che a questo secondo giro l’ha portata pure a dover imparare l’ungherese (vedremo se se ne accorgeranno di nuovo gli Emmy, che per la prima stagione avevano candidato Lyonne tre volte: come produttrice per la miglior comedy, come miglior attrice protagonista e come sceneggiatrice).
Tutte le time loop story (un filone il cui massimo esempio resta sempre il cult Ricomincio da capo con Bill Murray, ma che negli ultimi anni sembra moltiplicare esempi e sommarli ad altri generi, dalla commedia romantica di Palm Springs all’horror slasher di Auguri per la tua morte) sono, in fondo, la messa in scena di uno stallo, principalmente intimo ed emotivo: possono prestarsi ottimamente alla commedia, ma sono anche la rappresentazione perfetta di cosa significhi essere segnati da un trauma (cioè ritrovarsi a “riviverne” le conseguenze di continuo, anche nei momenti più inaspettati) o intrappolati in una dipendenza (di cui spezzare il ciclo sembra impossibile). Considerata la particolarità irripetibile della prima stagione di Russian Doll, Natasha Lyonne con la seconda fa la scelta giusta (l’unica sensata), e cioè alza la posta: salire su un treno per tornare indietro nel tempo significa andare a scavare nei traumi generazionali, andare a guardare da vicino quali loop della Storia continuano a imprigionarci, quali effetti a lungo termine di errori e orrori del passato non smettono di tormentarci.
Non sarà certo un caso, visto che Lyonne col passato ha probabilmente parecchi conti da pacificare: come dicevamo, dopo esser stata scritturata piccolissima da un’agenzia di modelle bambine, ha debuttato a sei anni davanti a una macchina da presa (nella serie Pee-wee’s Playhouse) e nel corso dell’adolescenza ha attraversato la parabola triste e che per qualche ragione ci sembra sempre “inevitabile” per i giovani attori, cioè quella che unisce successo di pubblico e tossicodipendenza. Scelta da Woody Allen per Tutti dicono I Love You, a fine anni ’90 è già lanciata come reginetta dell’indie americano, protagonista di titoli diventati innegabili cult come L’altra faccia di Beverly Hills e But I’m a Cheerleader (i tremendi titolisti italiani colpiscono ancora: da noi quest’ultimo è uscito come Gonne al bivio); ma ha anche un’enorme riconoscibilità mainstream per il ruolo ricorrente nella saga di American Pie, che in quel periodo è un vero ciclone planetario. Scorrere la sua filmografia a cavallo del millennio rivela un’ubiqua iperattività, ma fuori dai set si rincorrono gli arresti (per guida in stato di ebbrezza, per incidenti violenti), gli ingressi nei rehab e problemi di salute sempre più gravi causati dalla dipendenza da eroina, tra cui un polmone collassato e soprattutto un’infezione al cuore per curare la quale, dieci anni fa, si è dovuta sottoporre a una delicata operazione chirurgica.
Il ruolo da co-protagonista di Orange Is the New Black, uno dei primi (e maggiori, anche qualitativamente parlando) successi originali di Netflix, è stato raccontato ripetutamente come uno straordinario comeback, una vera e propria “resurrezione” non solo artistica, quel tipo di storie che piacciono alla stampa hollywoodiana quasi quanto le parabole discendenti dei giovani divi. E certo, anche lì Nicky (il suo personaggio in OITNB) e Natasha hanno diverse cose in comune oltre all’iniziale del nome: un passato di dipendenze, una personalità sarcastica e pungente, una voracità per la vita incontenibile. L’exploit di Russian Doll – lo specchiarsi di Lyonne in questa performance generosa e totale, questo dedicarsi a un ruolo in cui sciogliere i confini tra interpretazione sopra le righe e affondi autobiografici è più che mai complesso – è stato visto, da molti, come la rinascita e la consacrazione definitive. Non ci sembra allora un caso che l’attrice – che, acculturatissima e sempre loquace, anche se non ha mai finito il liceo mastica come una seconda lingua psicologia e filosofia – abbia deciso di essere, sempre più, anche autrice, con la penna e con la camera: il time loop è una forma dell’impotenza e della frustrazione, ma poche cose danno più forza che spezzare un circolo apparentemente chiuso. E un treno, che sia lanciato nello spazio o nel tempo, be’, un treno si può sempre guidare. Verso nuove avventure, verso il futuro.