Lo diceva Johnny Castle al padre conformista e imborghesito di Frances “Baby” Houseman, allo stesso modo lo dico io ai detrattori di Baby, la cui terza e ultima stagione – sei episodi totali – è ora disponibile su Netflix. Squadra che vince non si cambia, o meglio s’allarga. Alla regia, accanto ad Andrea De Sica e Letizia Lamartire, debutta Antonio Le Fosse del collettivo GRAMS*, che ha curato pure questa sceneggiatura; Anna Lou Castoldi (sì, la figlia di Asia e Morgan) s’aggiunge ai già collaudatissimi Benedetta Porcaroli, Alice Pagani, Lorenzo Zurzolo e Riccardo Mandolini; Achille Lauro canta che siamo maleducate, che lui ci vuole sempre così, e chi siamo noi per dargli torto, noi che ci siamo bevute tutti e sei gli episodi di Baby 3 in un solo pomeriggio, manco fossero uno shot di tequila.
È un epilogo dolceamaro quello della serie – la seconda italiana originale della piattaforma, prodotta da Fabula Pictures – sulle baby prostitute dei Parioli, e non poteva essere altrimenti. Nessuno spoiler che non sia intuibile dal trailer: per Chiara, Ludovica, Fiore, Simonetta, Brando, Damiano, Elsa i nodi vengono al pettine, crolla pian piano il castello di bugie, indifferenza, connivenza, sotterfugi, e ognuno è messo davanti alla triste evidenza di avere almeno una fetta di responsabilità nella torbida vicenda.
Passando in rassegna le recensioni che si sono accumulate dal 2018, anno d’uscita della prima stagione, balzano all’occhio i due antitetici approcci adottati dalla critica: da un lato gli hater che l’hanno condannata per una questione puramente ideologica (leggi, non trasudava sufficiente spocchia per essere degna della loro attenzione); dall’altro i bastian contrari per i quali è stata un semplice divertissement (leggi, faceva figo sostenere di trovarla decente esclusivamente per contraddire i tromboni di cui sopra). Ad accomunare entrambi, la peggiore delle dimenticanze: aver volutamente scordato che Baby – come SKAM Italia e a differenza di Euphoria – è una serie sui ragazzi fatta per i ragazzi, e che l’apertura a un pubblico più ampio – gli Young Adult, ma mettiamoci dentro pure gli Adult, sennò non saprei dove collocarmi – è stata quasi del tutto imprevista.
Esempio al contrario: prendete i dialoghi di Normal People. Se credete che i teenager parlino davvero così, allora non siete mai stati su un mezzo pubblico nella fascia oraria che va tra le 13:30 e le 14:30 di un qualsiasi giorno feriale, non siete mai transitati nei pressi di una scuola superiore intorno all’ora di pranzo, non avete mai origliato un cicaleccio sedicenne mentre stavate sorseggiando il cappuccino al bar. Piaccia o meno, c’è più aderenza alla realtà nei dialoghi di Baby che in tanti prodotti caduti ultimamente sotto il grande ombrello dei teen drama, e la cosa – anziché farci sorridere, anziché ricordarci quanto siamo stati scemi e burini – ad alcuni non è andata giù. Strano, dato che siamo (quasi) tutti figli di Beverly Hills 90210, dei suoi limiti, delle sue ingenuità e delle sue stramberie: l’adoravamo perché parlava a noi di noi, un po’ meno l’adoravano i genitori, che con cadenza regolare ci imploravano di spegnere quella porcheria.
Il punto è che oggi molti si sono trasformati nell’adulto convinto che Baby sia una porcheria, nell’adulto che anche di fronte ai numeri – dieci milioni di spettatori reali – scuote la testa e borbotta che non c’entra niente, ché la gente, è risaputo, guarda le schifezze. Lungi dall’affermare che la sceneggiatura sia perfetta, anzi: qua e là ci sono buchi e grossolanità, e di fronte a un paio di scambi non sono riuscita a trattenermi dal ridere, ma per un teenager è comunque assolutamente plausibile, così come a me ai tempi risultava plausibilissima la famosa scena in cui Brenda lascia Dylan con Losing My Religion in sottofondo. Scena che, rivista adesso, mi pare invece l’apice dell’inverosimiglianza e dell’assurdità.
Raccontare teenager profondi quanto pozzanghere – ché non esiste soltanto la Enid/Thora Birch di Ghost World – è, da che ne ho memoria, un’impresa per chiunque, partendo da Kids, passando per The Bling Ring, arrivando a Baby. A salvare la presentabilità di Larry Clark e Harmony Korine – Kids venne definito un film scandaloso, controverso, offensivo, diseducativo e via discorrendo – fu la consapevolezza che entrambi rappresentavano la quintessenza dell’übercool newyorkese: lanciarono tipe interessantissime (Chloë Sevigny e Rosario Dawson), ficcarono nella colonna sonora i Folk Implosion, ritrassero impietosamente la Manhattan pre-gentrificazione.
Sofia Coppola, invece, forse sta ancora maledicendo Rebecca, Nicki, Sam e Marc. Pur non meritandosi cotante critiche, agli adolescenti di The Bling Ring (e alla pellicola stessa) vennero rinfacciate superficialità, inconsistenza, vuotezza e vanità. D’altronde se la massima aspirazione della tua vita consiste nel rubare le borse di Paris Hilton, è difficile che tu possegga il linguaggio e lo spessore di un neolaureato dell’Ivy League, con un’ulteriore aggravante: i teenager di Coppola non mostrano contrizione o particolari rimorsi per i furti commessi, esattamente come Ludovica e Chiara di Baby per la prostituzione. Entrambi, se incalzati sul perché delle loro riprovevoli azioni, non riescono a trovare un motivo valido (spoiler: non c’è) o ad addurre giustificazioni (altro spoiler: non ne sentono il bisogno): la verità è che si stavano divertendo, che gli sembrava d’essere onnipotenti, che non volevano far la fine, spesso miserabile, dei propri genitori. Rispetto ai quali sono comunque più furbi, più scafati, più intelligenti: a sedici anni, se per avere la felpa di Gucci – che potresti tranquillamente permetterti – sei disposta a darla a un cinquantenne, sul banco degli imputati non c’è tanto la tua amoralità, quanto la tua famiglia e i valori che (non) ha saputo trasmetterti.
È anche l’assenza del tipico sermone alla Thirteen, ennesima lezioncina psico-pedagogica travestita da teen drama, ad aver ampliato il pubblico di Baby oltre quello di riferimento: nessuna filippica e un casting riuscitissimo, che è stato in grado di originare un micro star system in un’Italia priva di star system. Amiche e amici miei coetanei (leggi: in teoria fuori target) che hanno divorato la serie sono corsi immediatamente su Instagram a seguire Porcaroli, ormai elemento fisso della scuderia di celeb che ruota attorno ad Alessandro Michele; e Pagani, volto delle fragranze Emporio Armani insieme a Nicholas Hoult; e Zurzolo, l’Alain Delon nostrano, irresistibile co-protagonista di Sotto il sole di Riccione, sempre Netflix. Sono giovani, carini e parecchio quotati, influencer oltre che attori, perfetti nella parte dei ricchi studenti del liceo romano Collodi e completamente a loro agio in una terza stagione che ha il retrogusto e il sentore, nonché la fotografia, di un videoclip musicale scandito da Achille Lauro, Metronomy, The Drums, Dark Polo Gang, Levante, Bishop Briggs, Son Lux.
Noi, orfane della cara, vecchia e rassicurante dicotomia “bionde contro brune”, dove le prime si rivelano a sorpresa sempre più stronze delle seconde, oltre alla struggente narrativa del bad boy arrivato direttamente da Chino (ah no, dal Quarticciolo), in Baby abbiamo ritrovato anche un po’ di Beverly Hills 90210, un po’ di The O.C., un po’ di My So-Called Life, un po’ della nostra adolescenza televisiva. Il tutto in salsa italiana: un prodotto (odio il termine, ma è ahimè azzeccato) per il piccolo schermo che qui, prima d’oggi, nessuno aveva avuto l’ardire di scrivere, girare, produrre e confezionare in questo modo. Guai insomma a metterla in un angolo, Baby, o a volerla ridurre a una trashata da stroncare tout-court: rischiereste di trasformarvi nell’adulto che non volevate diventare, e perdereste l’occasione di versare qualche lacrima sul finale del penultimo episodio, 100 giorni, mentre Manuel Agnelli ci ricorda che non c’è niente che sia per sempre. Era un singolo del 1999, e noi “grandi” ai tempi eravamo ancora teenager: forse non è un caso.