Meryl Streep, lo saprete, è la new entry extralusso nel già strepitoso cast della terza stagione di Only Murders in the Building (dall’8 agosto su Disney+), ed è questa la notizia. E però non lo è. Non è la Grande Attrice a dar forza e lustro alla serie. È la serie già fortissima e lustratissima di suo – da noi se la filano in pochi, in realtà è una delle cose più belle che ci siano in tv (o come si chiama oggi) in questo momento – che convince la Grande Attrice ad esserne parte.
Streep arriva e, fin dalle primissime scene, piazza tutto il suo campionario di birignao e autocitazioni (però irresistibile). “I was trying a Scottish accent: this is my process”, dice durante le prove dello spettacolo la sua Loretta, che da quand’era bambina sogna di recitare ma è rimasta una di quegli attori eternamente provinati e mai scritturati – su queste figure (arche)tipiche del cinema e del teatro americani, e non solo, ci tornerò a breve.
A un certo punto, Meryl cita anche un “adorable little piglet” che non può non ricordare (almeno a me) la famosa e inelegante battuta di Dino De Laurentiis, all’epoca produttore di King Kong, quando l’allora misconosciuta Streep fece il provino: “Perché mi avete mandato questo maiale? Questa donna è bruttissima!”. Il problema è che Streep capiva l’italiano. (La parte andò poi a Jessica Lange.)
A scritturare Meryl/Loretta è Oliver, cioè Martin Short, il regista che finalmente torna a Broadway con un grande spettacolo: Death Rattle (letteralmente “il sonaglio mortale”, è l’arma del delitto e il bebè che ci giocava è l’unico testimone dell’omicidio in questione), un giallo à la Agatha Christie come tutti i “misteriosi omicidi a Manhattan” a cui ci hanno abituati le due stagioni di Only Murders precedenti. E il giallo, specularmente, avviene puntuale anche nella “realtà”: a morire sul palcoscenico è l’altra magnifica new entry, Paul Rudd, nei panni di Ben Glenroy, il divo del cinema mainstream che fa il suo debutto a teatro e che già era comparso (per schiattare subito) alla fine della seconda stagione.
Ma al di là del whodunit che ricompone il trio di podcaster malati di “storie maledette” – accanto a Oliver/Martin Short, ritroviamo Charles/Steve Martin e Mabel/Selena Gomez – il vero protagonista di questa stagione 3 è, appunto, il teatro di Broadway.
C’è Meryl/Loretta che, come dicevo, rappresenta tutte le attrici e tutti gli attori che non hanno mai fatto esclamare “ma dove sei stata/o fino a questo momento?” a nessun regista (a lei succederà, a settant’anni); c’è il fan stalker che colleziona ogni cimelio del suo attore preferito (e che ovviamente sarà il primo sospettato dell’omicidio); c’è lo squatter che vive indisturbato in un vecchio teatro di Midtown perché non può pagarsi l’affitto; c’è “la prima regola del teatro: non dare da mangiare a Hugh Jackman dopo mezzanotte”; ci sono i presunti fantasmi del palcoscenico (o dei camerini); ci sono i camei di Matthew Broderick e Mel Brooks (inserire emoji cuoricino); c’è la “white room“, cioè il luogo in cui rischia di finire qualsiasi attore quando è troppo preso dalla parte – luogo in cui può succedere di tutto e da cui si torna trasformati, nel bene e nel male (vero, Steve Martin?).
Death Rattle, per ragioni che non vi sto qui a dire, diventerà Rattle Dazzle, cioè un musical (la citazione nel titolo, lo dico per i non fanatici, è da Chicago). E la svolta musical dell’intera serie (Meryl poteva, del resto, essere qui e non cantare?) è introdotta da un numero proprio alla Bob Fosse, starring Selena Gomez e pure Steve Martin con cilindro e frac. Ancora più ardua della ricerca dell’assassino sarà quella della canzone “showstopper“, cioè il brano che “ferma” il pubblico, la Memory di Cats, la Maybe This Time di Cabaret, la hit che convincerà persino la Debbie di Duluth a pagarsi un pullman prima e un biglietto in prima fila poi per andare a New York a vedere lo show – come insegna lo splendido monologo della produttrice interpretata da Linda Emond.
È, questa terza stagione, un omaggio agli attori e al loro “artigianato”, e anche alle frustrazioni, alle sofferenze, alle rivincite, agli spotlight improvvisi, alle stanze bianche di cui ogni tanto si apre la porta, e allora cambia tutto. Un omaggio agli attori grandi e piccoli, idolatrati e dimenticati, star e comparse che, in tempo di sciopero della categoria, sembra l’unica vera risposta (prodotta, probabilmente senza volerlo e certamente in tempi non sospetti, da un colosso come Hulu/Disney) a chi pensa che in futuro una Meryl Streep fatta con l’Intelligenza Artificiale andrà bene uguale.