Per una serie di fortunati eventi, tre anni fa riuscii a vedere A Star Is Born circa un mese prima dell’uscita nei cinema italiani (oddio, che nostalgia!), e, dato che amo vantarmi, feci la smargiassa con alcune amiche. Le quali, un po’ per darmi corda, un po’ per ovvie ragioni, mi chiesero se m’era piaciuto, com’era, se Lady Gaga fosse brava, credibile eccetera eccetera. La risposta – adesso come allora – è che non lo so. Come si fa ad avere un giudizio oggettivo su un film, se si comincia a lacrimare dopo manco mezz’ora e se in quel film c’è il miglior Bradley Cooper nella storia dei Bradley Cooper?
Questo per dire che, in un’epoca in cui la bellezza viene bistrattata al punto che «siamo tutti bellissimi» (no, non è vero, è una bugia ascrivibile al «ti tratta male perché è innamorato di te»), io – donna etero noiosamente cis – rivendico il mio diritto d’entusiasmarmi di fronte alla prestanza maschile. E in barba al patriarcato, al privilegio, all’indelicatezza e a qualsiasi altra scemenza invocata in casi simili, confermo la tesi anticipata nel titolo: una dose di Sebastian Stan a settimana è in grado di rimettervi in pace col mondo, date retta a me che nell’ultimo periodo andavo avanti a pane e ansia.
Sto ovviamente parlando di James Buchanan Barnes, Bucky, il Soldato d’Inverno o The Winter Soldier, protagonista insieme a Sam Wilson/Falcon (Anthony Mackie) di The Falcon and the Winter Soldier, che ha debuttato il 19 marzo su Disney+. La miniserie, creata da Malcolm Spellman, è ambientata nel Marvel Cinematic Universe in continuità con i film del franchise, e si svolge in seguito agli eventi di Avengers: Endgame. Non credevamo che le prodezze di WandaVision fossero replicabili, non immaginavamo che quelli di MCU fossero così bravi, e invece. The Falcon and the Winter Soldier è un prodotto con un taglio (giustamente) diversissimo: gli episodi sono più lunghi, quasi dei piccoli film a sé stanti; le scene d’azione incredibilmente divertenti; il tema, anche qui, parecchio “adulto”, soprattutto se paragonato alle pellicole della saga.
Chi siamo quando la stella grazie alla quale scintilliamo non c’è più? Possiamo comunque brillare di una luce nostra? Cosa s’aspettano le persone da noi? Come fare a non cedere sotto al carico di tali aspettative e di una responsabilità che – magari per paura – non vogliamo accettare? Steve Rogers/Captain America non c’è più, e sia Bucky che Sam devono cercare la propria strada e adattarsi a un mondo senza di lui: sul primo pesa lo scomodo e imbarazzante passato da spietato assassino; sul secondo il fatto di essere un uomo afroamericano chiamato a rappresentare un Paese che non lo rappresenta.
Sebastian Stan dà vita in modo sublime ai tormenti e dolori del (non più tanto) giovane Bucky, e comunque lo si conci – col capello lungo, col capello corto, con la tutina, col giubbotto di pelle – è d’una bonaggine al limite dell’illegalità. Se avete già lì pronta l’accusa di un mio presunto razzismo, vi fermo subito e butto la carta dell’abilismo: il Soldato d’Inverno è privo del braccio sinistro e al suo posto ne ha uno bionico, dunque per quanto mi riguarda la gara della suscettibilità può dichiararsi chiusa. Torniamo ad argomenti più lieti e interessanti, ossia a Sebastian Stan: da persona sensibile all’estetica, chiaramente l’avevo già notato e apprezzato in quel ricettacolo di fighi che era Gossip Girl.
Stan era Carter Baizen, ennesimo ragazzotto ricco, inquieto, problematico, fighissimo, che incomincia gigioneggiando con Blair Waldorf (Leighton Meester, con la quale pare abbia avuto un flirt “reale”) e finisce per stare con Serena van der Woodsen (Blake Lively). Faccetta da schiaffi, labbro (carnoso) perennemente imbronciato, attitudine strafottente: ai tempi avremmo scommesso sulla sua carriera? Forse no, eppure il ragazzo – romeno naturalizzato statunitense, classe 1982 – è andato oltre le penthouse dell’Upper East Side e ha preso a macinare un film via l’altro: Il cigno nero di Darren Aronofsky; La truffa dei Logan di Steven Soderbergh; Dove eravamo rimasti di Jonathan Demme; Sopravvissuto – The Martian di Ridley Scott; Tonya di Craig Gillespie; tre Captain America; due Avengers. Nell’ultimo anno ha messo a segno Era mio figlio di Todd Robinson, insieme a Christopher Plummer, William Hurt, Ed Harris e Samuel L. Jackson; Le strade del male di Antonio Campos, con Bill Skarsgård, Riley Keough, Tom Holland, Mia Wasikowska e Robert Pattinson (su Netflix); Monday di Argyris Papadimitropoulos, in coppia con Denise Gough; The 355 di Simon Kinberg, dove divide la scena con Jessica Chastain, Lupita Nyong’o, Diane Kruger e Penélope Cruz.
Tradotto, guai dare per scontato uno che nel 2009 si giocava anche le mutande al tavolo da poker in una serie a torto considerata molto stupida (parentesi malinconica: non vi manca quella leggerezza? Non rimpiangete gli outfit milionari e sfacciati di Blair e Serena, che non offendevano nessuno?). Dodici anni dopo, potreste ritrovarvi a fare il conto alla rovescia delle ore che vi separano dal venerdì sera, quando v’accovaccerete sul divano con la vostra tuta anti-sesso a salivare davanti al nuovo episodio di The Falcon and the Winter Soldier. Sebastian Stan vale l’aperitivo con gli amici a cui c’hanno costretti a rinunciare? Fosse per me vi direi di sì, ma il mio – ormai si sa – è un giudizio totalmente di parte: ancora non so se A Star Is Born sia un bel film o meno, ovvio che tra uno spritz e gli occhi blu del Soldato d’Inverno sceglierò sempre i secondi.