Quando Ludovico Di Martino è andato per la prima volta all’Ipm di Nisida ha pensato di rifiutare la regia di Mare fuori 5. «Non lo racconto, non ce la faccio. Volevo abbandonare il progetto perché mi sembrava eccessivamente ridicola la rappresentazione che si faceva di questo mondo. Percepivo quasi una mancanza di rispetto nei confronti di ragazzi difficilissimi da comprendere. Quando sono entrato c’erano due ragazzi che fumavano su un muretto, in questo cortile immenso: era l’opposto della rappresentazione che avevo visto nella serie. Sono calati in un ambiente vastissimo e sono piccoli, soli e immobili nel tempo che non passa. Ho riletto un libro, Dentro di Sandro Bonvissuto, con una parte ambientata nel carcere in cui gli orologi sono fermi. Quindi tutti elementi che nella serie non c’erano: il silenzio, il tempo bloccato, e poi la violenza».
Da qui la sua volontà di provare a restituire a Mare fuori una dimensione più cruda e autentica, parallela agli aspetti inevitabilmente romanzati della vita in carcere. Che comunque lui oggi comprende, o quantomeno digerisce: «Mare fuori non è una serie Netflix, è una serie Rai. E la Rai è la tv di Stato, offre il cosiddetto servizio pubblico e quindi ha delle responsabilità superiori rispetto a una piattaforma privata, che produce serie di intrattenimento per cui la gente sceglie di pagare un abbonamento. La rappresentazione passa attraverso una semplificazione, è necessaria al racconto. Io ho giocato tanti anni a rugby e ho sempre criticato i film sul rugby, così come un musicista può criticare Whiplash che per me è invece un capolavoro. Ma come mi hai detto tu, se oggi tutti sanno cos’è un Ipm è perché c’è stato Mare fuori». Da qui anche il desiderio di farci una chiacchierata con Antigone, associazione italiana indipendente con sede a Roma, che dal 1991 lavora per la tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario. Insieme incontriamo il presidente Patrizio Gonnella e la coordinatrice nazionale Susanna Marietti, e la serie diventa il pretesto per riflettere sulla situazione carceraria attuale, su quanto un progetto di massa come Mare fuori faccia bene al dibattito, su quanto – scopriremo proprio grazie ad Antigone – un certo tipo di storytelling abbia fatto storcere il naso a pubblico e stampa, ma non agli operatori del sistema penitenziario.

Clotilde Esposito (Silvia) e Maria Esposito (Rosa). Foto: Sabrina Cirillo/Rai
«Negli ultimi anni Mare fuori ci ha accompagnato nel discorso pubblico», spiega subito Patrizio Gonnella, «e non c’è stata volta in cui abbiamo fatto un convegno, una discussione, la presentazione di rapporto, un’intervista o una lezione universitaria senza parlare anche della serie. La sua forza è stata quella di stimolare una visione di massa, soprattutto tra i giovani. L’altro giorno all’università volevo aprire un dialogo partendo da Adolescence, ma non l’aveva vista ancora nessuno dei ragazzi. Invece Mare fuori viene visto da almeno la metà degli studenti di Giurisprudenza. Io sono stato addirittura invitato dalla Mostra del Cinema di Venezia a parlare di giustizia minorile, cosa che non era mai accaduta prima. Perché? Perché adesso c’è Mare fuori. Questo per noi è importante. Significa che anche quando è fiction pura, la serie entra nel discorso e lo condiziona, rivolgendosi anche agli operatori. C’è una realtà che, in qualche modo, cerca di specchiarsi nella finzione, e questa è la responsabilità di Mare fuori».
La realtà, neanche a dirlo, per Gonnella e Marietti al momento è criticissima e non è spiegabile «se non con fuoco, dolore, sofferenza e mancanza di visione». La loro preoccupazione cresce dall’entrata in vigore del chiacchieratissimo Decreto Caivano, convertito in legge nel novembre 2023 per contrastare la criminalità minorile, l’abbandono scolastico e il disagio giovanile. «È la prima volta nella storia di Antigone che ci troviamo in questa situazione», spiega Susanna Marietti. «Di solito le nostre posizioni, che sono di garantismo e di un uso mite del diritto penale, sono sempre state minoritarie ma culturalmente rispettate. Tutti dovevamo farci i conti, invece da parte di questo governo c’è una rivendicazione totale e sfacciata. C’è una sorta di sovranismo penale che li porta a dire: sono affari nostri, decidiamo noi chi punire e come punirlo. Il Decreto Caivano va contro le regole di Pechino o delle Nazioni Unite? Ma chi se ne frega».
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Qualche esempio concreto: «Una ventina di giorni fa il sottosegretario Andrea Ostellari è andato in Lombardia a inaugurare tre nuove comunità socio-rieducative per minori ad alta intensità terapeutica, che in sostanza diventeranno i manicomietti in cui mettere tutti i ragazzi cattivi anziché potenziare le strutture già esistenti. Mentre la retorica del sistema minorile è sempre stata quella per cui i ragazzi vanno educati e non puniti, Ostellari si è vantato che quando sono arrivati al governo c’erano solo 400 ragazzini in galera e adesso ce ne sono già più di 600.
La violenza è uno dei temi centrali, inutile negarlo. Nel caso di Ludovico Di Martino, anche questa era una responsabilità da assumersi nei confronti della serie: «Se vuoi raccontare un carcere racconti anche gli orrori, che era quello che si erano un po’ scordati nelle stagioni precedenti. Quindi il bene e il male: se sfrutti il carcere come amplificatore di sentimenti positivi come l’amore o l’amicizia, devi fare la stessa cosa con i sentimenti negativi come l’odio e la rivalità». Nella quinta stagione la violenza subita da Cardiotrap (a cui le new entry Samuele e Federico spezzano le dita, e quindi anche la prospettiva di un futuro nella musica) ricorda quella subita da Pino ’o Pazzo nella prima stagione (nell’agghiacciante scena della pasta al ragù di cane) o la violenza sessuale agita dallo stesso Pino: «Naturalmente era tutto in scenaggiatura, ma ho voluto girare quella scena nel modo più violento possibile, anche rispetto alla dipendenza di Dobermann. I due personaggi milanesi che sono entrati in questa nuova stagione per me sono stati il miglior modo per introdurre la violenza che vige nelle carceri. Loro arrivano e dicono: “Ma chi sono ’sti coglioni?”, e certe volte mi sembravano quasi il mio punto di vista sulla serie, per il modo in cui criticavano certe morbidezze. In Mare fuori mancavano dei personaggi insalvabili, perché non è che salvi tutti. Alcuni non ce la fanno, muoiono o peggiorano».

Artem Tkachuk (Pino) e Domenico Cuomo (Cardiotrap) in ‘Mare fuori 5’. Foto: Sabrina Cirillo/Rai
L’obiettivo principale, però, è sempre stato quello di salvarli, educarli, reinserirli. E se fino a poco fa il discorso era condiviso, Patrizio Gonnella spiega quanto sia cambiato lo scenario all’interno: «Che fosse il capo della giustizia minorile o il direttore del singolo istituto, anche se dentro di noi potevamo avere delle idee diverse, pubblicamente sostenevamo gli stessi obiettivi. Ora si è rotto il patto comune. Pensiamo al Beccaria di Milano, che è paradigmatico: inchiesta per tortura, violenza e abuso di potere nell’aprile 2024, esce la notizia e da allora nessuno si è davvero rimesso in discussione. Si lascia che i ragazzi facciano quello che vogliono, “perché se li tocchiamo ci incriminano”. Siamo andati a visitare il Beccaria qualche settimana fa e abbiamo trovato una situazione in cui ognuno fa quello che vuole. Non va bene, non è il modello educativo, non può essere un luogo in cui uno si alza a mezzogiorno fatto di chissà cosa. Il sistema è andato così: gente che vive nelle celle che ha bruciato, in luoghi non agibili. Non era mai accaduto che a turno dessero fuoco a tutte le carceri minorili d’Italia (insieme al Beccaria, al centro del caos soprattutto l’Ipm di Casal Del Marmo a Roma, nda). E non c’è dietro una regia criminale, ma c’è l’incapacità di gestire un’utenza che è molto cambiata nel tempo». Susanna Marietti parla di un sistema immobile, che addirittura sta agendo al contrario: «L’atteggiamento è: “Se il minore riesce ad adeguarsi a noi, allora si salva. Altrimenti chi se ne importa, va a morire”. Il codice di procedura penale minorile entrato in vigore nel 1988 ha codificato una cultura profonda e radicata, che aveva preceduto la norma, e che era frutto di una grande riflessione nella società italiana. Sono molto turbata dal fatto che in così poco tempo stiano riuscendo a distruggerlo con cambiamenti rapidissimi. L’arrivo dei primi ragazzi nel carcere di Bologna è qualcosa che mai ci saremmo immaginati» (risale a pochi giorni fa la notizia del trasferimento di oltre 50 detenuti under 25 dall’Ipm del Pratello alla Dozza, carcere per adulti che oggi conta un indice di sovraffollamento tra i più alti in Italia, nda).
La legge Caivano subentra in uno scenario sfiancato da una carenza strutturale di fondi e risorse, da una scelta culturale precisa, quella della tolleranza zero, dalla difficile gestione di ragazzi che entrano in carcere con storie e dipendenze già importanti, dal pugno di ferro con i minori e dal problema delle baby gang che si presta ad un’ottima retorica per far leva sulla paura e sullo sdegno pubblico. Antigone ci spiega quali sono, a detta di Susanna Marietti, i punti più critici di Caivano: «Innanzitutto la possibilità di allargamento della custodia cautelare: oggi siamo di fronte ad un’impennata, ci sono il 60% in più dei ragazzini che c’erano prima e sono praticamente tutti in custodia cautelare. Questo è quello che ha creato il problema numerico». Poi c’è la questione dell’aggravamento della misura cautelare: «Stando al codice di procedura penale minorile, significa che se il magistrato ti dava il collocamento in comunità aspettando il processo e ti comportavi male, potevano mandarti in carcere a scopo punitivo per un massimo di un mese. Di per sé non è solo una risposta esclusivamente punitiva, ma crea anche dei problemi al carcere, gravandolo di un’utenza indiretta e rapsodica di difficile gestione. Ti arriva questo ragazzo per due settimane, non sai che attività fargli fare, lo chiudi in cella e comprometti anche il gruppo che si è formato. Nella fase in cui il decreto non era ancora stato convertito in legge, parlando privatamente con Sangermano ci disse che l’avrebbero tolto in fase di conversione, “Vedrete quando esce la legge”. Sai cos’hanno fatto? Hanno tolto il massimo di 30 giorni e adesso ti possono mandare in carcere per sempre. Adesso sono presenze che rimangono là». Sull’introduzione della diretta responsabilità della famiglia per abbandono scolastico, che prevede la reclusione per i genitori negligenti, Gonnella è lapidario: «È la morte di ogni ipotesi di rinascita dentro quel contesto. Se gli togli i genitori, lo Stato sarà considerato il nemico. E di fronte al nemico sai che penseranno? Che tra due anni di carcere per dispersione scolastica e due anni per spaccio, a questo punto conviene spacciare. Almeno faccio un po’ di soldi, almeno faccio il criminale vero».

Alfonso Capuozzo (Simone) in ‘Mare fuori 5’. Foto: Sabrina Cirillo/Rai
Per Di Martino stiamo girando attorno a una parola chiave, una parola mancante: empatia. «A che servono i film o la musica? La cultura non c’entra, quello che bisogna fare continuamente è sviluppare empatia, altrimenti prende il sopravvento una fredda visione punitiva. In questo ’sto governo è un fenomeno, perché fa come cazzo gli pare e ha una platea di gente che non si fa più certe domande. C’è un metodo di accanimento nel cercare delle soluzioni, un po’ come fosse un fast food: cibo subito e a basso prezzo. Eppure esiste una possibilità concreta che una serie, un film, un libro, un disco possano influenzare la realtà. È meraviglioso e forse ce lo siamo scordati. Trovo commovente il fatto che il cambiamento passi dalle persone, dalla nostra responsabilità. Non abbiamo il potere di cambiare una legge, ma abbiamo quello di cambiare un gruppo di persone, e a grappolo una società».
Patrizio Gonnella piazza un’osservazione lucida e bellissima: «Nella storia dei diritti umani l’empatia ha funzionato più delle rivoluzioni». Il meccanismo di immedesimazione nell’altro, il fatto di non standardizzare le biografie ma individualizzarle. «Ecco perché ho sempre difeso l’operazione culturale Mare fuori. Perché restituisce una visione agli operatori – direttori, psicologi, cappellani, preti, tutto il mondo dei procuratori, i giudici, i tutori – e l’ipotesi di sentirsi dentro una storia. Dagli studenti mi è arrivata una domanda frequente: “Ma è vero che esiste anche un direttore che non sia aguzzino?”. Pensiamoci, chi va in galera? Lo scugnizzo, lo straniero senza strumenti, il ragazzino che ha compiuto un reato efferato. Ecco perché l’empatia dev’essere il motore dell’offerta pedagogica».
Certo che con cinque stagioni di serie tv individualizzare le biografie è una passeggiata: episodi dedicati, flashback, focus sui background familiari, laboratori creativi in cui innamorarsi e ritrovare speranza, oltre alla necessità drammaturgica di sviluppare conflitti fino a comprendere un personaggio e, quindi, umanizzare il detenuto. Mare fuori – nel bene e nel male – è un’operazione che parla alla pancia dello spettatore, lo stesso che in veste di cittadino si limita a condannare senza interrogarsi. «È questa la grande sfida della pedagogia penitenziaria», prosegue Patrizio, «pensare che dietro quei dieci ragazzini che bruciano la cella non ci sono dieci storie identiche, ma ci sono dieci diverse biografie familiari. Lo scugnizzo non è sempre uguale». «Non è che ignoriamo il libero arbitrio degli esseri umani», fa eco Susanna, «perché è chiaro che a parità di condizioni e di contesto c’è chi sceglie di compiere il reato e chi no. Non è tutto frutto della società, però la società conta. E di fronte allo stesso reato, chi è che verrà colpito di più?».

Artem Tkachuk (Pino) in ‘Mare fuori 5’. Foto: Sabrina Cirillo/Rai
In questo senso ha ragione Di Martino, quando sostiene che il personaggio più riuscito della serie sia Pino ’o Pazzo (interpretato da Artem Tkachuk), il più forte tra i salvati, tra i rieducati, i reinseriti: «Rappresenta al meglio il racconto che Mare fuori dovrebbe fare. Di base i protagonisti commettono dei reati senza volerlo e dal punto di vista drammaturgico vengono trattati come degli innocenti, al contrario di Pino. Un paradosso? Lui nella quinta stagione ha la messa in prova, quindi durante il giorno esce un tot di ore e va a lavorare per un canile. Con Caivano hanno tolto la possibilità di messa in prova per i minori che commettono determinati reati, perciò questa è una stortura nella serie, perché oggi Pino ’o Pazzo non avrebbe la possibilità di essere reinserito. Non si parla di scuola, figuriamoci se si parla di istituti di pena minorile. Io invece credo che la costruzione del futuro dei giovanissimi sia l’argomento più importante di oggi. Perché Mare fuori piace tanto e comunica ai ragazzi? Perché parla di seconde possibilità, in un momento storico in cui il problema dei giovani è la disillusione rispetto al futuro, ai propri sogni, ai propri obiettivi. Anche un ragazzo di 15 anni fortunato, che va a scuola, con una buona famiglia e una bella casa può sentirsi ispirato. La cosa che ho capito grazie a voi è che quest’opera di sensibilizzazione – di quello che noi chiamiamo pubblico – è fondamentale e fuoriesce dal tema di cui stiamo parlando».