Negli ultimi tre anni gli effetti catastrofici della pandemia hanno spinto l’industria discografica e gli artisti stessi a cercare nuove idee per rendere sempre più interattivo il rapporto tra la propria arte e il pubblico, facendo sì che la popstar diventasse il divo incontrastato dello schermo domestico, l’idolo di cui seguire ogni aspetto o trauma della vita privata, in cui credere solennemente.
Già a partire dal 2019 alcune case di produzione avevano iniziato ad investire nella realizzazione di documentari incentrati sulla costruzione narrativa delle superstar negli aspetti privati e più intimi con cui i fan potessero realmente empatizzare. Questi documentari miravano a rafforzare l’umanità della star di turno, che si mostrava apertamente durante uno stato di crisi artistico/mentale in cui erano gli stessi artisti a raccontare, attraverso un preciso storytelling musicale, quel determinato periodo che avrebbe di conseguenza rappresentato una nuova via per l’idolo stesso.
Soffermandosi su questo aspetto, non sorprende come nell’ultimo anno alcuni prodotti televisivi, realizzati da coloro che vivono costantemente l’industria musicale dal suo interno, si siano concentrati nell’analizzare la visione dello stesso artista sia nella contemplazione della sua fandom tossica, come nel caso di Swarm (Sciame) di Donald Glover e Janine Nabers, o nello sfruttamento e strumentalizzazione sessuale della sua immagina estetica e dei conseguenti traumi personali (la malattia mentale è sexy) perpetrati opportunamente nel progetto più discusso del momento, The Idol, dalla mente di Abel “The Weeknd” Tesfaye e Sam Levinson (disponibile in Italia su Sky e in streaming su NOW).
L’elemento che congiunge due opere così differenti tra loro, soprattutto nella rappresentazione di una mentalità tossica che pervade l’industria musicale e nell’idealizzazione di determinate tematiche alla mercé del pubblico, è il modo in cui la colonna sonora rappresenta il centro e il fulcro della narrazione. Costruire un idolo da professare con i maggiori crismi estetici e musicali che si rispettino.
Se per Swarm Donald Glover ha preso chiaramente spunto dalla visione artistica ed estetico-musicale di Beyoncé, che ritroviamo anche nei testi, The Weeknd insieme a Mike Dean, produttore dello stesso artista canadese così come di 2Pac, Jay-Z e Kanye West (a proposito di crisi mentali), destrutturano continuamente la figura di Jocelyn (Lily-Rose Deep) prima incatenandola nell’archetipo artificiale dalle bad girl, costruendo su di lei la più classica delle imposizioni musicali di cui l’industria si è fatta da sempre portatrice nelle performer femminili, sino poi a spingerla verso la sua più completa rappresentazione artistica.
La musica originale, che lo stesso Tesfaye ha concepito come un flusso generativo, rilasciandone ogni sezione alla vigilia di una nuova puntata come dei singoli EP, segue l’arco narrativo di un’artista inglobata nella sue paure, nell’oggettificazione di sé (il sesso vende), in una Los Angeles dove i discografici sembrano predatori assetati di sangue che osservano le proprie prede dall’alto spargendo candore attraverso i propri sorrisi, e i proprietari di night club sono l’immagine più vicina a un Charles Manson 3.0.
Sin dalla prima sequenza, in cui lo schioccare dei flash sembra simulare degli schiaffi sul corpo di Jocelyn, durante il set fotografico per il suo nuovo album di rilancio, la tensione sonora si manifesta attraverso un pad sinuoso che sembra rimarcare il corpo della stessa Jocelyn per risolversi in un’orchestrazione che la vuole liberare dal mondo oscuro che l’ha portata in quello stato, verso una nuova visione dell’idolo costruito dalla massa ma che vuole emergere rispetto alla sua conformazione artificiale. Le star appartengono al mondo.
Sullo sfondo c’è una Los Angeles che non riusciamo mai a vedere completamente, nascosta alla vista dalla villa di Jocelyn e dalla sua family: è la Los Angeles di David Lynch e Angelo Badalamenti, di Nicolas Winding Ref e Cliff Martinez, lo sfarzo dell’intrattenimento della Città degli Angeli dove si nascondono le paure più nascoste, e le più primitive.
Il sax di Mike Dean in Devil’s Paradise sembra emulare gli incubi sonori di Strade perdute nella visione del jazzista interpretata da Bill Pullman, in cui il ripetersi di un riff lamentoso esprime la natura dei personaggi, la follia insita in ognuno di loro dove uno staccato stonato li riporta precocemente verso l’oblio.
Non casualmente The Weeknd ha citato in un’intervista rilasciata a GQ che una delle sue principali fonti di ispirazione per la musica originale di The Idol è stato David Bowie, che nel suo Station to Station, concepito e registrato proprio a Los Angeles, raccontò di essersi perso in questa landa desolata della California, cadendo nelle grinfie del lato dissoluto della sgargiante LA e del modo in cui le icone potevano essere create e distrutte in un istante. Questo strano mix si rivelò esasperante per Bowie in entrambi i sensi. Sentiva che la sua casa di Los Angeles era infestata dai fantasmi. Sentiva che il diavolo era nella sua piscina.
La forma cangiante della colonna sonora originale permette e Tesfaye e Mike Dean di costruire non solo lo spettro sonoro, nel vero senso del termine, di una Los Angeles vetrina del lusso e dell’orrore in cui Jocelyn ripercorre le sue strade perdute, ma di comporre la visione artistica della family di Tedros. La setta di Maurice Costello Jackson alias Tedros, interpretato dallo stesso The Weeknd, uomo misterioso proprietario di un club di Los Angeles, sembra conformarsi come la cosiddetta family di Charles Manson, dove in questo caso i rinnegati non sono dei giovani hippie i cui ideali si sono smarriti in una nuova campagna di marketing, ma artisti perduti riportati sulla retta via dallo stesso Tedros, e spinti al massimo delle proprie possibilità.
La composizione delle canzoni, sia quelle che costruiranno l’idolo Jocelyn che quelle della setta, rappresentano il punto musicale più alto The Idol, e donano a ogni membro dell’ensemble una propria identità musicale che farebbe invidia a più della metà di ciò che l’industria produce e immagazzina sulle piattaforme streaming. Dal targaryen afroamericano Izaak, interpretato dal bravissimo Moses Sumney, alla punta di diamante presente anche nell’ultimo tour di The Weeknd, Suzanna Son, ognuno ha una sua collocazione testuale e musicale. “It’s my family, we don’t like each other very much” cantano, capitanati dal producer dei producer Mike Dean, che interpreta sé stesso in una versione decisamente “fumosa”.
La musica rappresenta il vero plot twist della narrazione, l’evoluzione di Jocelyn da vittima a presunta carnefice. Lo stesso The Weeknd ha dichiarato che «la musica racconta letteralmente la storia della serie. Ma voglio portarla al prossimo livello. Voglio sfidare me stesso».
Come analizzato su Vulture da Laura Martin, coadiuvata da Paula Clare Harper, musicologa dell’Università di Chicago e massima esperta della pop song culture, le canzoni composte per The Idol, nonostante al primo impatto possano sembrare anacronistiche e quasi testualmente volutamente fastidiose, racchiudono degli stilemi perfetti per la costruzione di un classico successo pop che si sposa perfettamente con ciò che la serie vuole raccontare rispetto alla plasticità e artificialità della stessa industria.
Prendendo ad esempio in esame Word Class Sinner/I’m a Freak, che al suo rilascio è stata riprodotta più di 7,5 milioni di volte, brano di rilancio di Jocelyn dopo il periodo di rehab, ha tutte le caratteristiche per essere una canzone pop contemporanea standard, ma Harper aggiunge che «ci sono solo un paio di cose – e la maggior parte di esse sono a livello di testo – che spingono verso l’idea che questa dovrebbe essere una parodia di una canzone pop, un remodel di alcune iconiche performer femminili . Ci sono canzoni che colpiscono più duramente, ma se le sento alla radio o sulla base musicale di uno show televisivo, funziona. La prima astuta mossa musicale da parte di Tesfaye e del co-sceneggiatore/produttore Asa Taccone è stata ispirata dal catalogo di The Weeknd».
Harper nota la somiglianza della canzone con la sua hit del 2015 Can’t Feel My Face come una delle ragioni per cui potremmo essere predisposti a connetterci con essa. «In realtà ha la stessa identica progressione di accordi, e anche la stessa tonalità». Harper spiega che questo la rende intrigante per l’ascoltatore, poiché «sembra che ci sia un po’ più di assenza di direzione, quindi ottieni uno spazio più fluido e armonico».
«World Class Sinner funziona su un duplice livello: le tracce sono abbastanza robuste da funzionare in chiave pop, ma l’umorismo consapevole lo rende materiale ideale per i social media. Cercando I’m a Freak su TikTok, si trovano numerosi video di persone che ricreano la coreografia del videoclip – un altro fattore nel suo status subito iconico – e ci sono confessioni di persone che ne sono anche tormentate. Questa è la tensione al centro di questa traccia: odia lo spettacolo, ama la canzone e abbraccia la rabbia di tutto ciò». È un elemento che ritroviamo costantemente in tutti i singoli composti da The Weeknd per The Idol, non ultimo One of The Girls, presente nell’episodio finale della stagione, che ha già raggiunto il primo posto nella classifica di Billboard.
Così come le canzoni sembrano dare il via a quelle luci della ribalta che illuminano la nuova immagine di Jocelyn da idolatrare, il simbolismo delle cover ci guida verso alcuni aspetti che lo stesso Tesfaye cerca di dissacrare, come il “binomio” artistico tra John Lennon e Yōko Ono nella reinterpretazione di Jealous Guy, quasi ad indicare provocatoriamente che Yōko Ono abbia spinto Lennon verso nuove ispirazioni artistiche, come Tedros con Jocelyn, unicamente per un tornaconto personale. Uno sfruttamento artistico teso all’arricchimento della sua figura di mecenate.
In una serie dove si è raccontato tutto e il contrario di tutto, tra millantate chiusure anticipate e indiscrezioni su una possibile seconda stagione, sorprende come non ci si sia assolutamente focalizzati nell’analizzare l’aspetto musicale e compositivo su cui The Weekend si è volutamente e prettamente dedicato, spingendosi oltre e rivoluzionando le modalità di concepire una colonna sonora per un prodotto seriale. È l’idolo la musica stessa? Ciò che guardiamo sono le differenti anime di un’artista o la sua conseguente evoluzione musicale?
Come ha aggiunto Laura Martin, «qualunque cosa tu possa pensare della sua interpretazione di Tedros, Tesfaye ha realizzato un’impresa di contorsione musicale nel creare grandi canzoni pop mascherate da tracce che sembrano essere terribili. È riuscito a raggiungere un pubblico pronto, consciamente o inconsciamente, a connettersi con questa specifica tipologia di pop e, cosa ancora più importante, a crogiolarsi nella straziante goffaggine di tutto questo».