La trama facile facile
La stanno vedendo tutti (vabbè: quasi) da quando è stata caricata su Netflix, dunque mo’ ci chiediamo anche noi il motivo: perché Anatomia di uno scandalo è la miniserie del momento? La prima risposta è facile: per la trama. Che è facile (mooolto facile) pure lei. Dopo anni di distopie, biografie, o semplicemente storie d’autore (o wannabe tali) che si prendono – a volte anche giustamente – tutto il tempo necessario per partire e poi svilupparsi, qua tutto inizia subito e senza troppi preamboli. Londra, epoca corrente. Viene reso pubblico il flirt tra un ex ministro (Rupert Friend) del gabinetto inglese e una sua collaboratrice (Naomi Scott). Il pubblico ministero (Michelle Dockery) indaga. La moglie (Sienna Miller) non sta naturalmente a guardare. Tutto qui? Sì, più o meno. Perché siamo in epoca post-MeToo, dunque al semplice affaire clandestino si unisce l’immancabile accusa di violenza. Tutto questo lo veniamo a sapere nel primo episodio, che dura poco più di 45 minuti. Tutto diretto, easy, spedito, senza pretese e senza lungaggini. Il pubblico, che in tempi di sovrapproduzione di contenuti, come si chiamano oggi, si accontenta di poco (o sempre meno). E gradisce.
La pruderie “very British”
A Very British Scandal. Che è pure il titolo di una serie BBC (decisamente migliore di questa) starring Claire Foy e Paul Bettany ora disponibile anche da noi (dal 21 aprile su TimVision). Agli inglesi (e al pubblico che apprezza i titoli anglosassoni) piace da sempre questo che ormai è diventato un genere preciso: le storie di intrighi sessuali che mischiano Downing Street (qui c’è anche un premier molto somigliante a David Cameron), alta società, tabloid e tribunali. Il tutto osservando dal buco della serratura, a solleticare quel gusto per la pruderie che da sempre accompagna i fatti e i misfatti della monarchia più scandalosa che c’è (se di mezzo abbiamo pure la Corona, ancora meglio). E prendendo, a suo modo, una posizione anche politica: il politico (forse) abuser è un Tory, ça va sans dire. E, da ragazzo, era membro di una di quelle confraternite posh classiste, sessiste e razziste, ça va sans dire/bis.
Il tocco di Mr. Kelley
Ma non c’è solo la pruderie inglese. Dietro la serie c’è pure lo zampino di David E. Kelley, che ha sviluppato insieme a Melissa James Gibson il romanzo omonimo di Sarah Vaughan. E sapete (speriamo) benissimo chi è Mr. Kelley: il creatore di successi come The Practice – Professione avvocati e Ally McBeal, e più di recente il nome dietro “brand” come Big Little Lies e The Undoing – Le verità non dette. In sintesi: ricchi con case pazzesche (qui ce n’è un’altra, meno #houseporn delle precedenti, ma comunque notevole), scheletri (in tutti i sensi) nell’armadio, mogli abusate o gaslighted (là Nicole, qui Sienna) e una certa predisposizione alla violenza sessuale non così repressa (vedi – non è più spoiler, vero? – il personaggio di Hugh Grant in The Undoing, quasi un “fratello” di quello di Rupert Friend). Le bugie più grandi che piccole dell’upper class sono, ancora una volta, servite.
Il cast di (non) star
Sienna Miller, che ci piace da sempre, è da sempre un mistero. O meglio: è la star che non ce l’ha mai davvero fatta, ma che – in un modo o nell’altro – stella lo è appunto diventata. Non che Anatomia di uno scandalo serva a correggere la direzione sempre un po’ casuale della sua carriera, anzi: ma quantomeno il pubblico sembra dimostrare un rinnovato interesse nei suoi confronti. Anche Rupert Friend ha avuto mille occasioni (gli esordi con The Libertine e Orgoglio e pregiudizio, poi The Young Victoria, Chéri e, soprattutto, il ruolo dell’agente della CIA Peter Quinn in Homeland), ma non è mai diventato un vero divo. Discorso diverso per Michelle Dockery, che dopo l’exploit in Downton Abbey (dove era, ed è anche nel secondo capitolo cinematografico di prossima uscita, la cazzutissima Lady Mary) sta cercando di riposizionarsi tra cinema (vedi la parte nel brillantissimo The Gentlemen di Guy Ritchie) e tv: e qui il personaggio pare proprio il suo. L’exploit non c’è stato invece per Naomi Scott, visti gli esiti piuttosto scadenti dell’Aladdin live-action (sempre by Ritchie) e del reboot di Charlie’s Angels. E questa non sembra di certo l’occasione migliore per spiccare il volo nel mondo “dei grandi” (in tutti i sensi).
La tamarraggine ormai marchio di fabbrica
Ecco, a proposito di quest’ultima nota: uno dei veri punti di forza della miniserie è quello che ormai pare diventato un marchio di fabbrica delle produzioni “generaliste” made in Netflix. Vale a dire, una certa tamarraggine (o truzzaggine, o zarraggine: scegliete la vostra parola preferita) di racconto e messinscena. Quando al protagonista viene comunicato che su di lui pesa un’accusa di stupro, la regia piazza un bell'(insomma) effetto speciale come se Rupert Friend fosse colpito da un calcio in pancia e scaraventato in aria. E subito dopo, quando Sienna Miller – anzi, un primo piano contritissimo di Sienna Miller – pronuncia la parola “Stupro?!”, la macchina da presa vacilla (e torna a vacillare mentre immagina il marito e l’amante si baciano in ascensore). Tutto bruttissimo, tutto bellissimo. E anche stavolta, in fondo, va bene così.