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Perché ‘The Boys’ è (ancora) una delle serie più fighe in circolazione

Arrivata alla terza stagione, ancora più splatter delle precedenti, la ‘creatura’ di Eric Kripke continua a dimostrare che, in un’epoca di cinecomic che pensano solo al marketing, si può ancora fare un prodotto travolgente e innovativo. Che se ne sbatte dell’algoritmo

Karl Urban e Antony Starr nella terza stagione di ‘The Boys’. Foto: Prime Video

Approdata come underdog su Prime Video nel 2019, The Boys, serie creata da Eric Kripke e tratta dall’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson, si è trasformata in sole due stagioni in un assoluto prodotto di punta per la piattaforma di streaming di Amazon. Il motivo risiede soprattutto in una ricetta semplice ma di grande effetto: battute al vetriolo, scene d’azione iperrealistiche, personaggi a tutto tondo ricchi di chiaroscuri e con una backstory convincente, un cast in stato di grazia, una spolverata di satira sulle idiosincrasie dell’era social, colpi di scena e soprattutto sangue e violenza a fiumi shekerati insieme in modo armonico, bilanciato e impacchettati con solido professionismo.

Come avrete capito, The Boys non è la classica serie da vedere coi propri figli spalmati sul divano la domenica mattina, ma rappresenta una boccata d’aria fresca in un genere, quello del cinecomic, ormai asfittico, prevedibile, ipertrofico e le cui coordinate narrative sembrano dettate sempre di più dagli analytics del reparto marketing che dalla visione di un autore. E quando il pubblico lo capisce, la magia si perde e la festa è finita (non ho ancora visto Doctor Strange nel Multiverso della follia, ma amo incondizionatamente Sam Raimi e francamente ho paura).

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In un’attualità distopica in cui i supereroi sono celebrities gestite alla stregua di sportivi, divi di Hollywood e rockstar da agenzie/megacorporation, un manipolo di antieroi disfunzionali e “normali” (i boys del titolo) cerca di smascherare complotti e trame della potentissima Vought American, epitome della multinazionale/governo ombra maneggiona, paramafiosa e intrallazzata con tutto che nasconde sistematicamente vizi, malefatte dei propri talent pur di farli restare alti nei trending topic e di mantenere lo status quo. Il parallelismo con l’industria musicale è sempre vivido nell’universo senza dio (ma con molti dèi) di The Boys. Ci sono supereroi che sono solo artist e quelli che si uniscono in band.

Il gruppo più famoso sono i Seven, capitanati da Homelander, un crossover tra Capitan America e Superman senza il difettino della kryptonite che dietro la maschera sorridente e rassicurante dell’eroe che veglia su di noi nasconde (sempre meno bene, mano a mano che gli episodi si susseguono) una psicopatia dilagante a braccetto con esplosioni di violenza omicida, sguardi carichi di desolante solitudine e un sadismo crudele che lo rendono un personaggio indimenticabile ancorché repellente.

A completare il supergruppo ci sono: A-Train, l’uomo più veloce del mondo (finto) portavoce delle istanze della comunità nera con seri problemi di tossicodipendenza; Queen Maeve, amazzone immortale e imbelle intrappolata nel suo ruolo di superfemminista ma terrorizzata da Homelander; Black Noir, un enigmatico assassino ninja reminiscente Snake Eyes dei G.I. Joe; Starlight, eroina positiva ultracattolica e con un’infanzia che ricorda quella di Britney Spears; The Deep, un Aquaman dolorosamente più stupido coinvolto in scandali sessuali e invischiato in una specie di Scientology; e Stormfront, una manipolatrice di fulmini con una spiccata propensione alla comunicazione social e un oscuro passato nazista.

A cercare di contrastare con armi decisamente impari questi finti supereroi idolatrati dalle masse c’è un manipolo di scappati di casa, ex criminali, ex agenti governativi e persone comuni (aiutate occasionalmente da qualche super “pentito”) capitanate da Billy Butcher, un uomo consumato dall’ossessione di sconfiggere a qualunque costo Homelander, colui che ha violentato e ucciso sua moglie. Un’ossessione che lo rende pericolosamente simile quest’ultimo.

Attorno a questi due poli cardinali si dipana una serie di sottotrame (forse troppe) che costituiscono l’ambizioso intreccio di una serie scritta e diretta con grande maestria, in cui si riconoscono tutti i tòpoi cari a Garth Ennis, creatore della graphic novel originale e maestro del fumetto postmoderno, già autore di un riconosciuto capolavoro come Preacher: la solitudine, il disperato bisogno di connessione con affetti stabili, la distorsione che la comunicazione opera costantemente nella nostra realtà sensibile, l’assenza di figure politiche di riferimento. Una cosa che accomuna tutti i numerosi sups di The Boys è la loro condizione miserevole: gente straordinaria, ricca e famosa, che sembra doverci/doversi convincere che la loro vita è incredibile ma che, girato l’angolo, rivela tutta la propria fragilità, il bisogno di famiglia e di valori “puri” e il vuoto interiore ed esteriore.

Detta così sembra la sinossi di Mucho Más, il doc su Gianluca Vacchi (che ha lo stesso superpotere di Bruce Wayne: è ricco sfondato), ma The Boys è ovviamente molto di più. Merito anche di un cast perfetto: Antony Starr è impeccabile nel dar corpo alla schizofrenia delirante e untuosa di Homelander, e quel vecchio manzo di Karl Urban si cala insospettabilmente bene nei lisi panni dell’antieroe tragico pronto a stare in equilibrio sul sottile crinale tra il “fa’ la cosa giusta” e “il fine giustifica i mezzi”. Ma i comprimari non sono da meno: il solito bravissimo Giancarlo Esposito dà il volto al Tim Cook di Vought, freddo e calcolatore businessman vero centro nevralgico del potere; Jack Quaid è l’average Joe posto al centro di eventi più grandi di lui; Tomer Capone e Karen Fukuhara due Misfits induriti da tragiche esperienze passate ma che conservano un cuore tenero.

Certo, The Boys, coi suoi supereroi che per salvare persone comuni provocano danni collaterali ben peggiori dei problemi che risolvono, non racconta nulla di nuovo. Già nel 1986 Alan Moore, con la sua monumentale miniserie a fumetti Watchmen (poi trasposta al cinema da Zack Snyder nel 2009), compie uno scavo psicologico notevole sulla figura tragica del supereroe, uno studio sulla solitudine indotta dalla diversità di cui faranno tesoro in molti, basti pensare a M. Night Shyamalan con Unbreakable, Glass e Split, a Peter Berg con Hancock o, più recentemente, alla bellissima Invincible, serie animata per adulti tratta da un fumetto di Robert Kirkman (la trovate anche questa su Prime Video e chi scrive ve la consiglia caldissimamente).

Ma laddove i sopracitati esempi di desacralizzazione del superuomo virano più su atmosfere dark o sulla commedia (ci ha provato anche Marvel con Deadpool, divertente ma innocuo), in The Boys sono anche pervasi da una feroce satira sulla società dei consumi (non solo) americana. I “super” sono dei brand che fruttano milioni, con sponsorizzazioni, speciali natalizi, gadget, pubblicità e canali via cavo, e che lottano per continuare ad essere rilevanti e non finire travolti dagli inevitabili scandali diretta conseguenza del loro temperamento da post-adolescente viziato unito a forza sovrumana, telecinesi e raggi laser dagli occhi. È un sistema malato ma ramificato e potentissimo. Come può un gruppo di persone normali (sebbene occasionalmente dotate di qualche super rinforzino) sovvertire quest’ordine? Lo scopriremo in questa terza stagione, che sterza se possibile ancora più massicciamente sullo splatter (teste che esplodono, cervelli che schizzano, intestini che prolassano) e sembra finora un lungo teaser verso l’inevitabile scontro tra Butcher e Homelander. Più forte, ragazzi!

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