Ricordate com’era Laura Palmer, prima di essere uccisa e abbandonata in riva al lago, avvolta nella plastica? La sua vita iperattiva era filled with secrets, proprio come la cittadina in cui viveva, Twin Peaks. E i ragazzi di Beverly Hills 90210, il primo vero teen drama, iniziato in Usa contemporaneamente al capolavoro di David Lynch e Mark Frost? Eccessi, droghe, alcolismo, sesso occasionale: ai suoi inizi, la serie prometteva di “raccontare i giovani d’oggi”, svelandone le scioccanti abitudini. Gli amici di Dawson’s Creek più che fare parlavano, ma con tale logorrea che più di un’associazione di genitori protestò: cos’è quest’ossessione per il sesso? (A 16 anni? Incredibile, vero?). Poi sono arrivati gli inglesi di Skins, a dirci che loro, sì, erano realistici. Un paio d’anni fa Tredici, incentrata su bullismo e suicidio, ha allertato insegnanti e psicologi su scala globale. E adesso è il momento di Euphoria: la serie «che tutti i genitori avranno il terrore di guardare, e in cui tutti gli adolescenti si riconosceranno», come l’hanno descritta in molti.
Ogni teen drama che la tv manda in terra sembra destinato a camminare tra due pareti infuocate: da un lato l’edulcorazione alla Disney Channel, dall’altro l’esasperazione di rivelazioni estreme. Ma davvero non c’è un’alternativa? Un modo di scampare al sensazionalismo gratuito senza precipitare in un’innocua (e falsa) medietà? Euphoria, nonostante le polemiche e gli articoli di giornale che fanno la conta dei peni mostrati (30, circa), ci prova. In otto episodi, in onda su Sky Atlantic per quattro sere consecutive dal 26 al 29 settembre (alle 23.15), e poi disponibili su NOW TV: ecco tre motivi per guardarla che niente hanno a che fare col fatto che sia “scioccante” o “estrema”.
Numero uno: perché è bella
Esteticamente bella. Non tutte le serie (né i film) hanno un tono visivo distintivo, unico, inconfondibile: Euphoria sì. Il creatore dello show è Sam Levinson, figlio di Barry Levinson, il veterano di Hollywood che ha diretto, tra le altre cose, Good Morning, Vietnam, Rain Man, Piramide di paura, Sesso & potere. Sam, classe 1985, ha adattato Euphoria da una serie israeliana, ma rielaborandola con elementi autobiografici. Ha anche diretto la maggior parte degli episodi, cinque, lasciandone tre ad altrettante registe-attrici, Augustine Frizzell, Jennifer Morrison (quella di Dr. House e Once Upon a Time) e Pippa Bianco (molto apprezzata al Sundance col suo film d’esordio, Share). Prima di fare Euphoria, Levinson ha firmato un film che è diventato un piccolo cult sotterraneo, Assassination Nation: le due opere hanno molto in comune (anche se il film ha una svolta di violenza distopica alla The Purge, la serie no), a cominciare da un’estetica fatta di colori fluo, forti contrasti, notti al neon, glitter, sospensioni psichedeliche, un utilizzo cruciale della musica preso in prestito al videoclip (tra i produttori c’è Drake) e un controllo dei movimenti di macchina e della messa in scena incredibile.
È, sì, un’estetica “caramellosa” e iper accattivante, la versione stilizzata di certi filtri Instagram, ma non è un caso, o pigrizia, anzi: prima ancora che con quello che racconta, Euphoria parla ai teenager così, col suo stile e i suoi colori. A 16 anni il mondo è una versione aumentata della realtà: questa storia si svolge nel più noioso dei sobborghi, ma l’universo sullo schermo si adegua ai sentimenti dei personaggi. I vorticosi piani sequenza danno la sensazione di una continua (spaventosa o elettrizzante) perdita di controllo, la gestione degli spazi si chiude o si restringe a seconda che ci si senta improvvisamente, immensamente soli, oppure soffocare. È il primo teen drama realizzato dalla rete adulta per eccellenza, HBO: basta vederne mezza inquadratura per capire che è qualcosa di nuovo.
Numero due: perché ha un cast pazzesco
Tutte le bimbe prodigio Disney a un certo punto tagliano i ponti in modo netto con la casa di Topolino, vedi alle voci Britney Spears o Miley Cyrus. Ora è il momento di Zendaya, che fa qualcosa di simile, ma puntando di più sulla carriera d’attrice (anche se nella colonna sonora di Euphoria c’è una sua canzone): sceglie con entusiasmo questo progetto potenzialmente azzardato, in cui interpreta Rue, una diciassettenne tossicodipendente, appena uscita dal rehab ma determinata a continuare a drogarsi (per motivi che non riassumiamo perché spoiler). Zendaya interpreta splendidamente un personaggio drammatico e complicato, che è anche voce narrante (inaffidabile) e che, di tanto in tanto, sterza nel comico, per alcune parentesi geniali (il monologo sulle dick pic è già cult). Più ancora che in Spider-Man, Zendaya dimostra che la stoffa di un’ottima attrice c’è tutta: evviva.
Attorno a lei, Levinson ha assemblato un cast impeccabile, scegliendo i volti giusti tra interpreti giovanissimi, pescando tra attori, modelli, webstar. Jacob Elordi, che qualche spettatore Netflix ha visto in The Kissing Booth, è un bullo psicopatico dalle incredibili sfumature d’inquietudine. Hunter Schafer, giovanissima modella transgender, è Jules, la nuova arrivata, coraggiosa, misteriosa e tormentata in parti uguali: la sua relazione con Rue è la luce (e l’ombra) dello show. Barbie Ferreira, modella e attivista body positive, è Kat, un’inedita versione della “ragazza grassa” che smantella una discreta quantità di stereotipi. La giovane star Sydney Sweeney – già vista in Everything Sucks!, Sharp Objects, The Handmaid’s Tale e in una piccolissima parte in C’era una volta a… Hollywood – è Cassie, una “bella della scuola” del tutto atipica. L’elenco continua per ogni membro del cast, persino per quelli apparentemente minori, come Lexi/Maude Apatow (figlia del regista Judd), Fez/Angus Cloud, Christopher/Algee Smith. Ognuno di loro rende tridimensionale e autentico il personaggio che incarna, e la serie si plasma attorno a loro, dedicando quasi a ognuno un episodio (alla Skins); il fatto che quasi tutti gli attori siano anche attivissimi sui social non fa che aumentare il legame con il pubblico di riferimento.
Numero tre: perché parla dei Temi senza parlare dei Temi
La realtà vissuta dai protagonisti di Euphoria può sembrare a molti sconvolgente, ma per loro è un incontestabile dato di fatto: esistono nel mondo fisico e sui social network senza soluzione di continuità, si scambiano foto e video nudi come parte integrante di una relazione sentimentale, il consumo di pornografia incide sul modo in cui fanno sesso, l’accesso alle droghe più diverse, acuito dalla crisi degli oppiacei che percorre gli Usa negli ultimi anni, è scontato. Il punto è che Euphoria non li giudica quasi mai: per i suoi giovanissimi personaggi prova un affetto quasi doloroso, li segue da vicino senza poter intervenire, sapendo che l’unico modo per crescere è farsi male, e qualche volta fallire, perdere, rifare tutto. Lascia a loro (e a noi) il compito di determinare la verità e il mondo: come quando Rue dice che «la droga è una figata», ed è vero, è anche una figata, la serie ce lo mostra come pochi hanno fatto prima, ma poi non si ferma, ci fa vedere anche tutto il resto, anche la parte della dipendenza che no, non è una figata per niente. Senza fare la morale, ma anche senza mentire. O come quando una Jules bambina, pre-transizione, viene rinchiusa con l’inganno in un istituto psichiatrico: come può essere l’unica a non accorgersi di quel che le sta per succedere? L’identità di genere di Jules, tra l’altro, è uno degli aspetti che rendono Euphoria a suo modo rivoluzionaria: il fatto che sia una ragazza transgender non viene menzionato fino al terzo episodio, quello a lei dedicato, perché semplicemente la sua linea narrativa, fin lì, tocca tutt’altri aspetti. E quando ci arriva, la serie non tace certo il lato difficoltoso di essere un’adolescente in transizione, ma si guarda bene dal renderlo l’unico tratto caratteriale del personaggio.
Ecco, non è una serie per tutti, Euphoria: se così fosse non ci sarebbe, al termine di ogni episodio, un avviso che invita gli spettatori a cercare aiuto (con numero di telefono per sms, negli Stati Uniti), se gli argomenti trattati nella puntata hanno toccato uno o più punti di disagio o sofferenza. Ma è una serie in cui tutti, indipendentemente dalla propria età, possono trovare qualcosa di sé. Come ha colto il regista Xavier Dolan, da subito grande fan, Euphoria, sotto la sua superficie glitterata, parla di traumi: di come li affrontiamo e li superiamo, e del male che ci infliggiamo nel mentre (e c’è forse trauma più universale dell’adolescenza?). È, al cuore, una storia di sopravvivenza, nel bene e nel male: difficile restarle indifferenti.