Quando vidi la puntata pilota di Girls, nella primavera del 2012, per poco non caddi dalla sedia. Non c’era niente che non andasse in Girls, e più macinavo episodi, più sviluppavo una specie di strano culto vagamente ossessivo nei confronti di Lena Dunham. Misi a ferro e fuoco l’internet per trovare Tiny Furniture, il suo primo (delizioso) film che scovai sottotitolato in russo; la stalkerai in ogni angolo del web e arrivai persino a crearmi una finta casella postale negli Stati Uniti dove farmi recapitare, e poi da lì rispedire in Italia, un paio di scarpe di Rachel Antonoff che le avevo visto ai piedi in una foto.
Nulla poteva frapporsi tra me e il mio amore per Lena Dunham – figuriamoci un online store che consegna soltanto su territorio americano – e la critica sembrava d’accordo con il mio personale entusiasmo, dimostrato con una pioggia di Emmy, Golden Globe, BAFTA e compagnia bella caduti sulla testa della serie e della sua creatrice. Col senno di poi è difficile spiegare a freddo i motivi di tante lodi: c’erano i dialoghi caustici scritti magistralmente; la colonna sonora che era un monumento al miglior indie rock in circolazione; la scelta felice di interpreti come Adam Driver, Jemima Kirke e Christopher Abbott; l’intuizione di ambientare la storia a Greenpoint appena prima che il quartiere diventasse a tutti gli effetti cool; lo humour scorretto, sottile ed egoriferito dei personaggi; l’alter ego di Dunham, Hannah Horvath, che abbatte uno dopo l’altro i cliché (fisici, morali ed economici) della commedia femminile alla Sex and the City. Sì, Dunham era la voce di una generazione, quella nata dopo il 1980, i Millennial che sfuggivano alle leggi del marketing, che avevano messo in crisi i centri commerciali e Abercrombie & Fitch, che pretendevano senza dare nulla in cambio: persone spesso abbastanza individualiste e spregevoli, di sicuro totalmente inaffidabili, eppure raccontate con un’ironia talmente affilata da risultare in fondo dei simpatici cazzari.
Lena Dunham nel 2012 ha 26 anni ed è ovunque, celebrata e intervistata da chiunque. In mezzo a tanto clamore, però, c’è chi le punta il dito contro: lei, bianca, ebrea, ricca, cresciuta in un contesto newyorkese radical-intellettual-fighetto (i genitori vengono definiti Soho art-scene royalty, per intenderci), ha portato in scena quattro ragazze e un cast bianco, peccando di mancanza di diversità razziale. Dunham, abituata a stare gomito a gomito con gli amici liberal e provocatori di mamma e papà, accetta la polemica e commette un primissimo passo falso: con l’intento di ‘scusarsi’, nella seconda stagione di Girls coinvolge Donald Glover e gli affibbia il ruolo del fidanzato afroamericano fervente repubblicano. Personalmente ai tempi trovai l’escamotage piuttosto divertente, quasi geniale, ma in America figurati, apriti cielo. Il Glover-gate, per quanto ora rappresenti uno sputo nell’oceano, riesce però a tracciare i contorni del modus operandi con cui Dunham tende ad affrontare la vita e i problemi a essa correlati: impulsivamente, spiazzando il pubblico con battutacce che soltanto l’1% può capire, tentando di accaparrarsi l’attenzione con uscite fuori luogo, senza imparare mai niente dai propri errori e replicando il comportamento di un bambino capricciosissimo che vuole i riflettori puntati su di sé, consapevole che ci sarà sempre qualcuno pronto a rimediare ai suoi merdoni.
Negli anni a seguire il mio idillio viene messo a dura prova da una serie di boutade ai limiti del bizzarro, tra cui val la pena ricordare: «Se sapessero quanto vorrei scopare Drake, non mi darebbero della razzista»; «Per gli standard di Detroit sono magra»; quando ha equiparato Bill Cosby all’Olocausto; quando ha detto di non aver amato l’India perché c’era troppa povertà in giro; quando ha paragonato la lettura di alcuni articoli non lusinghieri pubblicati su Jezebel sul suo conto a farsi prendere a sberle da un marito abusivo; quando nella sua (mediocre) autobiografia del 2016, Not That Kind of Girl, ha narrato con dovizia di particolari le esplorazioni compiute da bambina attorno alla vagina della sorella; quando nel 2017 ha concluso l’ultima stagione di Girls con l’ennesima controversia: il figlio di Hannah Horvath doveva essere mezzo pakistano, ma per interpretarlo ne seleziona uno haitiano.
Ogni figuraccia è seguita da scuse pubbliche d’ordinanza – quasi si trattasse del copione di una brutta serie tv – compreso lo scivolone in piena tempesta Me Too, che la vede impegnata non solo a non schierarsi con una delle vittime, ma ad accusarla di dichiarare il falso. Le danno della razzista hipster, e su internet prende piede persino la teoria cospirativa secondo cui sia una serial killer di animali domestici: tutto ha inizio il giorno che l’adorato cagnolino Lamby le morde il sedere, e lei – indispettita da cotanta aggressività – decide che è arrivato il momento di dirgli addio. «Il cane stava benissimo, prima di incontrare quella lì», scrive in un’accorata mail un dipendente della BARC, il rifugio dove era stato adottato; dopo l’abbandono di Lamby muoiono nell’ordine la gatta Sphynx Gia Marie e la Yorkshire Bowie, e i tre sfortunati eventi insieme scatenano le voci di corridoio. La fatica televisiva del 2018, co-scritta con l’ormai ex braccio destro e bff Jenni Konner (Camping), si rivela un mezzo disastro: le due litigano, il sodalizio si rompe e Dunham rimane da sola a raccogliere i cocci della sua reputazione ammaccata nonché della sua malandata salute fisica e psichica, entrambe oggetto di prolissi e spesso noiosissimi post su Instagram. Nulla è rimasto dell’enfant prodige dei tempi d’oro, ma il desiderio di divertire – anzi, di irritare – è duro a scomparire. Sottopostasi volontariamente a un’isterectomia totale a 31 anni per trattare l’endometriosi di cui soffre, mentre è convalescente ritrova la lista di nomi strambi buttata giù insieme all’ex fidanzato Jack Antonoff per i loro eventuali figli, e pensa bene di pubblicarla su Twitter. Guarda che non fa ridere, le risponde lui, e i follower confermano: no Lena, non fa ridere per niente.
Chi è oggi Lena Dunham? Io ormai non lo so più, e forse non lo sa bene manco lei. Pure la body positivity che nella prima stagione di Girls sembrava una ventata d’aria fresca ora è ostentata un po’ volgarmente, come fosse l’emblema di una battaglia persa: dalla celebrazione di un corpo che non aderisce agli standard consueti di bellezza, Dunham è passata alla celebrazione di un corpo che non è sano, esibito per convincere il pubblico che sì, nonostante le intemperie lei si ama ancora moltissimo, checché ne dica la gente. La sua personale discesa agli inferi, che io ho vissuto come una specie di tradimento, assomiglia a quella di tanti rich kids Millennial, con tratti ricorrenti descritti alla perfezione da Bret Easton Ellis in Bianco: «La convinzione che tutto sia loro dovuto, quella di essere sempre nel giusto malgrado le ricorrenti e inconfutabili prove del contrario, la loro incapacità di considerare le cose nel loro contesto, la loro diffusa tendenza a reagire in modo spropositato e la loro positività passivo-aggressiva».
Una ragazzina viziata che si rifiuta di crescere, insomma, che dalla casa di campagna dei genitori in Connecticut, come raccontato in un’intervista a Vulture, manda messaggi in caps lock con domande retoriche all’ex di cui sopra (che io m’immagino pazientissimo): «COME CI SI SENTE A ESSERE STATI CON UNA PERSONA CHE TUTTI ODIANO?». La (forse) buona notizia è la firma di un contratto d’esclusiva di due anni con HBO, che la vedrà impegnata nell’adattamento televisivo delle vicende della truffatrice Anna Delvey: l’occasione perfetta per dimostrare che gli ultimi cinque anni sono stati un errore, una sorta di 2007 di Britney Spears durato un quinquennio, o la riprova che il talento iniziale ci è costato un enorme abbaglio. Io, sebbene le debba perdonare un numero indefinito di malefatte – l’uscita infelice e sottotono di Jessa da Girls in primis – in fondo tifo per la prima ipotesi: collasso nel sentimentalismo, commenterebbe Ellis, e stavolta va bene così.