La visita al set della serie Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La vera storia degli 883, prodotta da Matteo Rovere e Sydney Sibilia e nel 2024 su Sky e NOW, è stata un’esperienza che non dimenticheremo, e non solo perché tutta incentrata sul tema della memoria. Mentre dai finestrini dell’auto i quartieri di Roma scorrevano lentamente, dal centro alla periferia, scorrevano anche trent’anni, a ritroso, dal presente al ’92. In parole pezzaliane, saremmo stati “in rotta per casa di Dio” se Nettuno, oltre che comandare le acque marine, potesse dire la sua anche sul moto ondoso artificiale delle piscine dell’Hydromania di Casal Lumbroso.
Ovviamente il miracolo di Cinecittà (in senso lato, l’Hydromania è a un palmo di naso dalla discarica di Malagrotta) in questo caso non risiedeva tanto nel poter trasformare un non luogo acquatico di Roma Ovest, peraltro fuori stagione, nell’Aquafan di Riccione al culmine dei suoi fasti socioculturali, cioè il debutto canoro degli 883 per mano di Dj Albertino. Era anzi proprio ciò che della magia cinetelevisiva restava sospeso sulla superficie di quel liquido – odoroso di cloro, antialghe e sigarette di maestranze – a interessarci di più, giacché non è detto che l’acqua che ci arriva al ginocchio non possa essere foriera di significati più profondi.
Sebbene fossimo a una decina di chilometri dalle mura aureliane (e molte di più dall’Urbe Pezzalis, Pavia), quel parco acquatico, ormai poco usato perfino in pieno agosto, costituiva le rovine extraterritoriali di un’epoca precedente, più vicina dell’era imperiale ma comunque lontanissima, sospesa tra il mare vero ma torbido di Fregene e una città stupenda ma teatrale. Questi scivoli già in pieno letargo a fine settembre sono colossei curvilinei in vetroresina non da scavare, ma da seguire con lo sguardo nelle volute che un tempo conducevano a un’arena nautica – e alla relativa lotta coi batteri fecali e la dance commerciale – e, oggi, a un passato ideale. Catacombe musicali disseppellite dall’aria e dalla mente invece che dalla terra. Insomma la scenografia ideale per una serie che deve raccontare, almeno per la prima stagione, cosa si dicevano durante la ricreazione Pezzali e Repetto, mentre anche Berlusconi e Dell’Utri preparavano la discesa in campo. In pratica: il controcanto sonoro e provinciale alla Milano degli stessi anni narrata proprio da Sky in 1992 e seguiti.
Hanno ucciso l’Uomo Ragno è dunque una produzione con due soli target in cui però, per fortuna di Sky, si divide l’intera popolazione nazionale: 1) quelli che, all’epoca dei fatti di Pavia e di Riccione, non c’erano ancora, eppure ne provano comunque un’intensissima nostalgia; 2) quelli che, inizialmente, penseranno che, di questo passo, finiremo per produrre serie televisive anche su cose successe l’altro ieri, per poi accorgersi che dal ’92 sono già passati ben più anni di quanti ne abbia, in media, il primo target. Perché è vero che i giovani di oggi hanno messo da parte alcuni valori importanti del passato, come tuffarsi da venti metri in un piccolo oceano di Escherichia Coli o vivere l’epopea di non avere una lira, per poi fare i soldi; ma certe mode non passeranno mai, come affrontare il presente o non avere un euro da piccoli e non avere un euro neanche da grandi.
Sul set bastano poche poche battute con l’ideatore e regista della serie per capire subito che, se c’era qualcuno in possesso della sensibilità culturale e del distacco antropologico necessari per portare a casa un poema epico-motociclistico multistagione, questi è proprio Sydney Sibilia: «883 era il modello di Harley meno caro, ma loro ne avevano comunque il mito».
Il carrello porta-abiti che la capa costumista Valentina Taviani spinge sulla terrazza che domina l’Hydromania è, suo malgrado, un’accuratissima guida di stile su come non vestirsi, né all’inizio degli anni ’90, né mai. «Pavia è una città caratterizzata da una palette giallo-beige, al massimo bordeaux», ci confida, mentre ne passa in rassegna i colori e le forme che, indosso a Max e Mauro, posero fine a quel predominio di tinte tenui. Così lo spazio in cui eravamo si è rimpicciolito, fino a raggiungere le dimensioni dei guardaroba di due ragazzi come tanti, in quel momento storico ma anche in quello attuale, grazie all’eterno ritorno di certi gusti, soprattutto se discutibili: polo a blocchi colorati per Mauro, maglietta tarocca dei Bad Religion per Max.
Grazie all’impegno di Luisa Iemma per le scenografie e di Giorgio Pizzuti per gli arredi, questa cura maniacale si estende anche alla ricostruzione dei luoghi in cui è ambientata la serie e ci rendiamo conto, ancora in assenza di altre prove, di quanto elevata sarà la scala produttiva di questa Odissea nella sfiga. «È più facile fare un film sull’800, perché si ricordano meno dettagli», ci spiegano, mentre apprezziamo particolari come i menu dei gelati coi ghiaccioli da 600 lire e i cartelli con gli orari di apertura che non prevedono orario continuato. Nel prodotto finale che verrà trasmesso nel 2024 sarà solo la briga di un fermo immagine molto zoomato a rendere giustizia a certi elementi scenici. Uno su tutti, tra quelli che abbiamo avuto la fortuna di poter toccare con mano, la rievocazione storica del box di Radio Deejay a Riccione, talmente impeccabile da sembrare quasi superflua (come nei foglietti con la scaletta dei pezzi da suonare); ma certo in grado di rendere ancora più credibile il lavoro di Livio Remuzzi (interpretare Albertino che mixa) e più facile il nostro, che lo guardavamo mostrare le mani sulla folla sotto il suo cielo di legno dipinto di bianco, sapendo in cuor nostro cosa avrebbe messo su dopo Rhythm Is a Dancer.
I due attori principali della serie, Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli, faranno il resto grazie a un vero miracolo di casting: oltre a essere dei sosia degli originali canteranno pure, ci anticipa Sibilia, con tanto di Ciro dei Neri per Caso come coach timbrico. Giuggioli era magistrale nella sua resa del repettismo, quel mix di ipercinesia coreografica e cazzonaggine psicoattitudinale che è facilissimo provare a imitare, ma quasi impossibile incarnare come riusciva a fare in effetti lui, senza uscire dal personaggio nemmeno nelle lunghe pause in cui ciondolava incessantemente tra i figuranti; così verosimigliante che, da un momento all’altro, avrebbe potuto chiedere loro se non avessero un “deca” da alzargli e così eloquente, nel suo silenzio dinoccolato, che non aveva bisogno di aprire la bocca per esprimere lo stupore fanciullesco nel prendere atto della figata che la sua vita stava diventando. «Con Elia siamo diventati subito amici», ha detto Matteo.
Per riuscire altrettanto bene, Nuzzolo non aveva bisogno di tali sforzi, con quella sua parrucca nero-blu perfettamente bilanciata tra stempiatura e ciuffo, somigliante da media distanza a un casco da enduro particolarmente elegante, merito del capo parrucchiere Michele Vigliotta. «Per ora non abbiamo ancora incontrato Mauro. Max sì, ed è contentissimo di come stanno andando le cose», ci ha rivelato il giovanissimo attore al suo primo ruolo importante. Nei tanti ciak che gli vediamo ripetere ci è piaciuto molto quello in cui la crema solare che si spalma ossessivamente sul viso, colore dell’intonaco, gli finisce disgraziatamente anche sui Ray-Ban. Ripensiamo alle parole di Sibilia: «Alcuni artisti sono destinati al successo. Max e Mauro erano chiaramente destinati all’insuccesso».
Mentre la scena passatista brulicava di vita, intorno a noi il presente cominciava a fare sentire, appunto, la sua presenza. Così abbiamo notato per la prima volta che, qua e là, i basamenti degli ombrelloni dismessi e privi di tela, coi loro moncherini richiusi alla bell’e meglio con dei sacchi dell’immondizia, in attesa di una nuova stagione, erano allineate in modo quasi sinistro sul prato ingiallito, fino a sembrare il sepolcreto di guerra di un’altra estate vissuta pericolosamente.
Ma l’ultima e più bella immagine della nostra visita, prima di rimetterci in moto verso il 2023, sono stati due calabroni (le Harley degli insetti) che rombavano come droni su e giù per il set, anche quando le comparse in perenne movimento – e perfino Giuggioli-Repetto – erano tutte finalmente in relax, dopo tante inquadrature con le braccia alzate, coi super liquidator scarichi posati accanto agli infradito. Non ci è dato di sapere se Pezzali o Repetto saranno presenti nella serie, anche solo per dei camei: chissà, un genitore di compagno di scuola, un barista, un meccanico di motorini, un qualunque adulto random in un mondo in cui erano e sono ancora eterni ragazzi. E anche se quel giorno non sono stati fisicamente con noi, ci era chiarissimo che erano sempre presenti entrambi. Perché la morale di questa favola è che la struttura alare di due ragazzi di Pavia, in relazione alla loro sfiga, non è adatta al volo, ma loro non lo sanno e volano lo stesso.