Se avevate tra i 7 e i 10 anni nei primi ‘80 e i vostri genitori non erano amish che vivevano in una remota comunità rurale dell’Appennino toscoemiliano, con tutta probabilità avrete una certa familiarità con una linea di giocattoli creata dalla Mattel nel 1982 popolata da nerboruti guerrieri ipertrofici e avvenenti amazzoni che sul pianeta Eternia (un mix alla pari di stregoneria e fantasy debitore di Conan il Barbaro e robotica e cibernetica figlia della distopia anni ’70) si davano battaglia per ottenere il non meglio specificato titolo di “Dominatore dell’Universo”: i Masters of the Universe, appunto. I buoni erano guidati dall’eroe He-Man, muscoloso, biondo e seminudo come Mister Universo se fosse stato disegnato dal leggendario Frank Frazetta; i cattivi facevano invece capo a Skeletor, potente stregone anch’egli strutturato come un bodybuilder cosparso d’olio ma con un teschio giallastro al posto del viso e un senso dell’umorismo piuttosto discutibile. L’impatto socioculturale di He-Man e i Dominatori dell’Universo è noto e ben documentato (imprescindibile in questo senso la visione dell’episodio 2 della stagione 1 di The Toys That Made Us, docu che racconta retroscena e origini della Golden Age dei giocattoli): con la fine della trilogia originale di Star Wars, finisce anche lo strapotere dei pupazzetti di Star Wars prodotti dalla Kenner e di fatto termina un’era.
Arrivano i Masters, pupazzi più grossi, muscolosi, selvaggi e zarri, perfetta espressione dello zeitgeist e di un’epoca caratterizzata da sfrenato edonismo, ossessione per il corpo, esagerazione narcisistica. Il cinema d’azione degli anni ‘80 infatti si cristallizza intorno ai suoi campioni d’incassi più rappresentativi, i palestratissimi Stallone e Schwarzenegger (interprete anche dei film live action di Conan il Barbaro). Il successo di questi pupazzetti che sembrano wrestler della WWF (altro fenomeno paradigmatico del decennio in questione) è tale da portare nel 1983 alla creazione di una serie animata ad opera della Filmation, che in capo a due anni realizzerà 130 episodi replicati all’infinito e davanti ai quali resteranno imbambolate almeno due generazioni di ragazzini. Diciamolo però senza paura: ogni puntata era de facto uno spot di 30 minuti per far comprare ai genitori dei piccoli spettatori più action figures, mezzi e playset Mattel e l’approfondimento psicologico dei personaggi era grossomodo simile a quello di Kaori, la finta giapponese protagonista dello storico spot del Philadelphia. Nonostante ciò, negli anni la serie animata si è scavata un posto speciale nel cuore di milioni di appassionati in tutto il mondo che hanno segretamente e ostinatamente covato la speranza di un reboot decente (dopo qualche deludentissimo tentativo nel 1990 e nel 2002).
Dal 23 luglio, la speranza si è trasformata in realtà con l’approdo su Netflix dei primi cinque episodi di Masters of the Universe: Revelation, attesa riproposizione animata del franchise che reca la prestigiosa firma di Kevin Smith, regista, attore, comico, montatore veneratissimo dalla grande famiglia mondiale dei nerd: infatti è un avido lettore di fumetti (vendette la sua collezione per finanziare il suo primo lungometraggio, Clerks, e coi soldi guadagnati grazie al film aprì una fumetteria in New Jersey di cui è ancora il proprietario) e va più al ComiCon di San Diego lui che tutto il cast della saga degli Avengers messo insieme. Quando seppi che Smith era al timone del reboot di MOTU, non potei far a meno di pensare che, dati i suoi precedenti cinematografici, avrebbe rivisitato la saga dei Dominatori Anabolizzati dell’Universo con il suo consueto armamentario di doppi sensi anali, battute sulle scoregge e prese per il culo varie dell’innegabile cheesiness dell’originale. Un’intervista al regista uscita su SyFyWire una ventina di giorni fa, però, ha smorzato categoricamente queste aspettative incrementando proporzionalmente la curiosità. «Non ho mai pensato che avremmo fatto incazzare i fan. Abbiamo sempre detto: questa serie è per loro. Non stiamo cercando di convertire nuovi spettatori, anche se pensiamo che ovviamente qualcuno ce ne sarà, visto che molti guarderanno la serie coi loro figli. Se non sei un fan di He-Man, apprezzerai questa serie spaccaculi. Ma se conosci il mondo di He-Man, ci siamo adoperati affinché tu non abbandoni quest’esperienza dicendo “Questo non è il mio show! L’hanno rovinato! Hanno mollato il colpo!”».
Una dichiarazione d’intenti parecchio ambiziosa. Ma Smith si spinge oltre, quando ricorda l’unica raccomandazione fattagli da Ted Biaselli, il responsabile serie originali di Netflix: «Mi ha detto: “Tratta Revelation come Shakespeare”. E io ho pensato: oh mio dio! Non avrei potuto ricevere ordini migliori! Io non sono in grado di scrivere Shakespeare, ma posso scrivere Fake-Speare! Ho amato il fatto che la mia linea guida fosse: “Non reinventare nulla, semplicemente fai un sequel spirituale”». Leggere queste asserzioni venti giorni fa mi ha fatto credere che con MOTU Smith avrebbe potuto aggiungere un altro incredibile tassello alla sua già apprezzatissima carriera… In caso contrario, Smith avrebbe dovuto cambiare identità per proteggersi dalle ritorsioni di milioni di fan incazzati. Ebbene, ieri, dopo aver fatto sedimentare la visione di tutti e cinque gli episodi della prima parte di Revelation, mi sento di propendere per la prima ipotesi. Smith sembra essere riuscito a restare in miracoloso equilibrio tra il ricordo affettuoso e la contemporaneità, senza apparente sforzo, mantenendo alto l’interesse grazie a un arco narrativo orizzontale mai banale, rispettoso del passato ma allo stesso tempo in grado di far luce su molte sfaccettature dei protagonisti della serie che la bidimensionalità degli episodi originali semplicemente non permetteva.
Smith fa la sua dichiarazione d’amore nei confronti della serie Filmation nei primi 10 minuti del primo episodio di Revelation, che sembrano una versione moderna di una puntata del 1983. Skeletor anche oggi ha deciso di rompere i coglioni agli eterniani cercando di violare il Castello di Grayskull. Il principe Adam, approfittando del caos generale generato dalla notizia, si trasforma in He-Man e ingaggia con la sua nemesi una lotta furibonda che si conclude però in modo inaspettato, con il primo di una serie di spiazzanti twist con cui l’autore di Dogma ha deciso di infarcire Revelation. A cominciare dalla scomparsa dell’eroe, He-Man, che molti fan ortodossi non hanno gradito. Cazzi loro. Smith intelligentemente ridimensiona radicalmente la presenza del barbaro col caschetto alla Nino D’Angelo dando invece spazio a figure tradizionalmente relegate al ruolo di comprimari, su tutte Teela, l’indomita guerriera braccio destro di He-Man e figlia adottiva di Man-At-Arms.
Questi primi cinque episodi sono soprattutto la “sua” serie: attraverso una Eternia stravolta che ricorda quasi l’habitat desolato e senza speranza di Ken il Guerriero, Teela e la sua partner Andra si imbarcheranno in una rischiosa missione per riportare la magia sul pianeta, coadiuvate da un eterogeneo e improbabile gruppo di alleati. Un po’ come accade in Mad Max: Fury Road, in cui Max era la miccia che “innescava” la cazzutaggine di Furiosa, anche qui il titolare del franchise diventa un escamotage per veicolare le sfaccettature di un’eroina che si trova a fronteggiare il nemico più terribile di tutti: le proprie paure. Ma, data la natura dello showrunner, era logico aspettarsi anche un pò di comedy e i momenti di flashback, nei quali Teela rivive alcune imprese eroiche del passato al fianco dell’uomo più forte della galassia, sono un espediente molto intelligente per citare il passato ironizzando sul sense of humor “da papà” di He-Man senza il rischio di sminuire l’amore e la serietà con cui il team aurorale di Revelation si confronta con il materiale originale. Al tutto si aggiunga una qualità di scrittura notevolissima (si veda il bellissimo e struggente dialogo tra Orko ed Evil-Lyn), uno sconvolgente colpo di scena finale, un commento sonoro Jameshorneresco ibridato con una certa ignoranza attitudinale hair metal dello specialista Bear McCreary, e un cast di voci semplicemente incredibile (Chris Wood, Sarah Michelle Gellar, Mark Hamill, Lena Headey, Liam Cunningham… e c’è anche il leggendario vocalist dei Black Flag Henry Rollins, che doppia Tri-Klops) e capiamo di trovarci davanti a qualcosa di davvero speciale.
Come per la serie Cobra Kai, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, Masters of the Universe: Revelation riesce ad aggiungere qualcosa di significativo al mito anni ’80 senza intaccarne negativamente la memoria e conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, la capitalizzazione dei nostri ricordi come strategia di marketing dominante nell’entertainment odierno. Rispetto a Cobra Kai, però, qui c’è una differenza importante, come ci spiega lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Merigo: «A differenza dei film e telefilm, dove i personaggi invecchiano e alcuni passano a miglior vita, con i cartoni animati si riesce a giocare al meglio con la modernità. I concetti identitari e di ruolo abbandonano gli stereotipi del passato e si vestono di abiti più attuali. Uscire dagli anni ’80 è complicatissimo per delle ragioni molto semplici, ma che spesso ci poniamo come assenza di idee nuove o come maggior facilità nel rifare qualcosa di ormai abbandonato. In realtà la seconda opzione non è cosi semplice: i reboot spesso non convincono perché tolgono il fascino di quegli anni, o subiscono delle trasformazioni così significative da renderli banali o addirittura inutili. L’effetto nostalgia si accompagna con l’effetto paragone, dove metto a confronto non solo i cambiamenti tecnici e estetici di un programma, ma anche le emotività che vivo nel rivedere la ritrasmissione».
«Se ci pensiamo, in tutte le riedizioni di qualcosa della nostra vita, vogliamo sempre qualcosa di più del passato e forse il vero problema è nell’aspettativa: se devo scegliere tra un bel ricordo e un remake di questo, consciamente pretendo che l’impatto emotivo sia più intenso di come l’ho vissuto trent’anni fa», continua Merigo. «Metaforicamente è come ricevere un invito a cena della vecchia fiamma delle medie. Per una settimana vivo con fantasia l’aspettativa di quell’incontro, ma nel momento in cui questo accade, o si infiamma il passato con il presente, o rischio la delusione più totale, rovinando anche quel lontano ricordo e confinandolo in un cassetto della memoria. E gli anni ’80 son difficili da scordare proprio per questo: perché hanno creato nuovi prototipi emotivamente importanti per il pubblico dell’epoca. Un po’ come per i fan di Hendrix: quai qualsiasi chitarra distorta per loro ha una nota o passaggio reminiscente di Hendrix».