Tutti abbiamo un’attrice, o un attore, di cui regolarmente non ricordiamo il nome ma solo la faccia, la cui presenza significa che il film o la serie tv che c’accingiamo a vedere non farà schifo. Io me ne accorgo dal trailer, inizio a incalzare il mio fidanzato – o me stessa, negli ultimi tempi mi capita di parlare da sola – «Dai, c’è coso/a, hai presente? L’abbiamo già visto/a in (metti il nome)». Annaspo, gesticolo, mi sforzo, poi arrivano la rassegnazione e la sconfitta, che coincidono con l’utilizzo dell’aiuto di Google: puntualmente lei si chiama Kathryn Hahn; lui adesso guarda caso non mi viene proprio in mente, portate pazienza.
M’è successo anche mentre guardavo il primo episodio di WandaVision, tutta concentrata sui due protagonisti Elizabeth Olsen e Paul Bettany: quand’è entrata in scena Agnes, la vicina impicciona, il mio cervello ha iniziato a tessere una tela di collegamenti partita da Come farsi lasciare in 10 giorni, Afternoon Delight, I sogni segreti di Walter Mitty, Captain Fantastic, Bad Moms, Private Life. Dal grande al piccolo schermo: l’indimenticabile rabbina Raquel Fein di Transparent; la spettinatissima, squinternata, irresistibile Chris Kraus di I Love Dick; l’arrapatissima milf divorziata di Mrs. Fletcher; la struggente Dessa Constantine di Un volto, due destini. Il minimo comun denominatore è lei, Kathryn Hahn, quel volto che è impossibile dimenticare, quella sua capacità di funzionare bene ovunque – l’amica spiritosa, la moglie comprensiva, la quaranta-e-qualcosa-enne un po’ in crisi, un po’ matta, parecchio simpatica – quei tempi comici precisi quanto un cucù svizzero.
Negli Stati Uniti parlano – una volta tanto non a sproposito – di Hahnaissance, una specie di Rinascimento di Kathryn Hahn: doveva arrivare il Marvel Cinematic Universe perché tutti s’accorgessero di lei (e io m’appuntassi il suo nome), ma insomma meglio tardi che mai, non stiamo a sottilizzare. Per anni Hahn è stata la spalla perfetta, in grado di sfruttare al meglio lo spazio concessole sullo schermo, indipendentemente da quanto limitato fosse, finché non arriva Joey – precedentemente noto come Jill – Soloway, sceneggiatore, scrittore, regista e produttore, che la vuole come protagonista nel suo primo lungometraggio, Afternoon Delight. Hahn è Rachel, una donna di Los Angeles consumata dall’essere madre e moglie e dalla routine di una vita che pare sempre uguale: sarà la comparsa di una giovane spogliarellista (Juno Temple) a sconvolgerla, portandola a rimettere in discussione i pilastri che considerava sacri e inviolabili. Potrebbe sembrare una trama già vista (e in effetti lo è), ma Kathryn Hahn è talmente convincente e credibile che diventa difficile separare la finzione (la frustrata Rachel) dalla realtà (Hahn in quanto attrice).
Il film, ambientato nel delizioso quartiere di Silver Lake, viene presentato al Sundance Festival nel 2013, piace al circoletto indie che conta, aiuta Soloway a “vendere” Transparent (dove avrebbe appunto recitato pure Hahn) e, soprattutto, ha il pregio di riformulare la stessa Hahn in un nuovo ruolo atteso da anni: quello da protagonista. Che avrebbe ripreso in I Love Dick nel 2017, ancora con Soloway, e due anni dopo in Mrs. Fletcher di Tom Perrotta (suona un campanello se dico The Leftovers?). La carriera di Kathryn Hahn vive di interpretazioni come queste, in bilico tra il divertente e il triste, in un punto in equilibrio che pochissimi altri hanno saputo trovare e mantenere, e che – paradossalmente – l’ha portata a venire spesso trascurata.
È fin troppo facile dare per scontato un’artista quando te la ritrovi in diversi prodotti televisivi e cinematografici, quando macina ottime performance in qualsiasi ruolo ma non è mai particolarmente appariscente o premiata durante la stagione. Ora, con mio – nostro – grande sollievo, trascurare Hahn sta iniziando a costituire un affronto al gotha di Hollywood: la sua è la filmografia di un’attrice che sfida costantemente sé stessa, maneggiando materiali non semplici, giocando con personaggi che le si cuciono addosso e dimostrando di riuscire a rubare la scena anche se in un ruolo secondario.
La conferma, se mai a qualcuno servisse, arriva dall’episodio di WandaVision andato in onda la scorsa settimana (occhio che partono gli spoiler): quell’adorabile ficcanaso di Agnes è in realtà Agatha Arkness, un’antichissima strega con un Marvel-curriculum nient’affatto da ridere. Ventimila anni portati divinamente e una verve micidiale, l’unica (forse) che dà del serio filo da torcere a Wanda Maximoff: Hahn passa con estrema disinvoltura da un personaggio all’altro, e senti che si sta divertendo col timbro della propria voce, con le mossette, con le alzate di sopracciglia, con i sorrisi di plastica e le continue allusioni. Per i veri drogati di MCU (tra cui la sottoscritta) la vera identità di Agnes non è una sorpresa: una delle principali ipotesi che sin dall’inizio affollava i forum dei fan rimasti sotto con la serie, era appunto che la perfida Agatha Arkness avrebbe prima o poi fatto capolino, e la rivelazione regala finalmente un senso alle (mie) interminabili ore trascorse a leggere le teorie di nerd all’ultimo stadio.
Infine, dato che non vogliamo farci mancare nulla, c’è la canzone – con relativo “videoclip” – Agatha All Along, capolavoro di un minuto composto da varie sequenze tratte dalle puntate precedenti della serie, nelle quali si svela come l’intervento di Agnes/Agatha in vari momenti chiave abbia cambiato il destino dei singoli personaggi. Il brano, co-scritto dai premi Oscar Robert Lopez e Kristen Anderson-Lopez, ispirato alla sigla della serie I mostri, è chiaramente diventato virale e ha scalato in men che non si dica la classifica dei più ascoltati su iTunes. Agatha Arkness sarebbe stata così dannatamente strepitosa se non avesse avuto le fattezze di Hahn? Ma che domande: non me ne vogliano i coniugi Lopez, ma la mia personale versione del loro tormentone suona più come «It’s been Kathryn all along!».