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Solo un manipolo di matti veri su Netflix vi convincerà che non state impazzendo

Da Joe Exotic e i suoi big cats alle gattare canadesi, da Osho a Bikram, guru dello yoga e predatore sessuale, fino alle stramberie di Gwyneth Paltrow: sulla piattaforma è freak show

Un'immagine di 'Catwalk: Tales From the Cat Show Circuit'

E se non fosse un caso, che Tiger King sia uscito su Netflix proprio lo scorso 20 marzo? Provo a spiegarmi meglio: secondo Variety, la docuserie di Eric Goode «è diventata un’ossessione culturale inarrestabile» perché ormai siamo mortalmente annoiati, e desideriamo essere intrattenuti «da qualcosa di diverso dalle notizie sempre più terribili che ci vengono propinate dai media». Benissimo, ci sta, eppure sono convinta ci sia dell’altro. Vedere in azione un manipolo di matti come Joe Exotic e il carrozzone di bifolchi senza denti, senza braccia, senza gambe che lo circonda è quasi rassicurante, in una maniera un po’ perversa e parecchio egoista. Sono loro stessi – e la puntata speciale arrivata nei giorni scorsi lo conferma – i big cats allo zoo (non crederemo ancora alla pantomima del «parco per la salvaguardia dei felini», vero?). E noi li guardiamo con curiosità, sbigottimento e pure con una certa consolazione: chiusi in casa stiamo impazzendo, ma non saremo mai così, non diventeremo mai matti quanto loro.

Mentre partorivo questa tesi, favorita dalle ingenti dosi di tempo libero di cui la quarantena ci omaggia, mi è tornata in mente una canzoncina – oggi trascurabilissima – che aveva imperversato a inizio 2000: loro erano i The Ark, gruppo svedese di cui (fortunatamente) si sono perse le tracce, e nel singolo tramutatosi in tormentone estivo ricordo che dicevano una roba tipo «ci vuole un pazzo per rimanere sani di mente». Il che è forse vagamente grossolano, ma non del tutto sbagliato. Non si può negare che osservare fin dove la follia riesce a spingersi aiuti non poco a ridurre i nostri scazzi quotidiani, soprattutto di questi tempi. Morale: siamo reclusi, sì, i nostri livelli di tolleranza sono bassissimi, veniamo infastiditi da un nonnulla, la monotonia è la nostra migliore amica, salutiamo la più bella stagione dell’anno (se va bene) da una terrazza inondata di sole, ma non stiamo uscendo di testa. O, almeno, questo vorrei dire a chiunque sui social millanta la perdita della ragione. I matti non siamo noi, state tranquilli, e basta compiere un doppio carpiato nei documentari di Netflix per averne conferma e tirare un respiro di sollievo.

Matto era di sicuro l’imprenditore Billy McFarland, ideatore del festival musicale all’insegna del lusso cafone che avrebbe dovuto svolgersi su un’isola delle Bahamas, Great Exuma, nella primavera del 2017. Fyre – La più grande festa mai avvenuta di Chris Smith racconta come McFarland sia riuscito a vendere biglietti che andavano dai 1.500 ai 250mila dollari l’uno senza effettivamente avere nulla da offrire (fatta eccezione per panini pallidi e tende sgarrupate), se non un video promozionale dove gente come Bella Hadid, Kendall Jenner e Emily Ratajkowski sguazzava in acque cristalline. La sua sindrome d’onnipotenza l’ha portato a essere condannato a sei anni di carcere e a pagare 26 milioni di dollari per frode telematica, ma – come qualsiasi pazzo che si rispetti – se glielo chiedessero ora lui probabilmente rifarebbe tutto daccapo, con la medesima faccia tosta e la convinzione che, nonostante qualche grattacapo, ogni cosa stia andando alla grande.



Follia di matrice differente, ma comunque matti da legare anche Bhagwan Shree Rajneesh (in arte Osho) e un tale Michel (o Andreas, o The Teacher a seconda di come gli gira, il che già la dice lunga). Il primo è il protagonista di Wild Wild Country, docuserie di Maclain e Chapman Way che in sei puntate ripercorre la storia di Rajneeshpuram, la comune dell’Oregon costruita intorno al culto di Osho che – volendo ridurla ai minimi termini – si concretizza in un bizzarro mix di fanatismo, sesso, armi, attacchi di bioterrorismo e nell’immancabile caso giudiziario di turno. Il secondo è il leader carismatico e parecchio enigmatico di Buddhafield, una piccola comunità di Los Angeles basata sull’amore e sull’accettazione che ha accolto Will Allen, il regista di Holy Hell, per ventidue anni. Michel/Andreas/The Teacher in realtà è un mezzo farabutto (ex truffatore, ex attore fallito ed ex pornodivo: della serie, solo in America) che s’inventa una setta e si auto-proclama guru soltanto per sottomettere – psicologicamente, finanziariamente, infine sessualmente – i suoi (bellissimi) seguaci, distorcendo in modo maldestro l’utopia hippie.
Il che ha qualcosa in comune con un altro matto, Bikram Choudhury, il fondatore dell’hot yoga al centro del documentario di Eva Orner, Bikram – Guru dello yoga, predatore sessuale. Chiaro che pure trascorrere 90 minuti in una stanza riscaldata fino a 42 gradi, con un’umidità del 40%, facendo yoga in compagnia di cinquanta esseri umani, non è sintomo di un perfetto equilibrio psichico – ma comunque: Bikram è uno sciroccato con problemi di alopecia e una preoccupante pancetta nonostante le copiose sudate, che attraverso metodi di insegnamento aggressivi al limite del dittatoriale crea un vero e proprio impero del fitness e diventa ricchissimo. Va tutto bene (o quasi) finché alcune adepte denunciano il capo carismatico, accusandolo di molestie e aggressioni sessuali. Lui nega e dagli Stati Uniti fugge in India, burlandosi delle sue presunte vittime: «Perché mai dovrei molestare le donne? La gente arriva a spendere un milione di dollari per una goccia del mio sperma».



Dallo sperma alle vulve, rimanendo in tema benessere: non ci è dato sapere se Gwyneth Paltrow ci sia o ci faccia, certo che però la docuserie goop lab è un pregevole concentrato di stramberie come morti che ci parlano, rassicurazioni sul consumo di MDMA, psicoterapia psichedelica. Il confine tra follia e genialità, d’altronde, è parecchio sottile, e la reginetta wasp reinventatasi Wanna Marchi di Hollywood si erge a ultimo baluardo della sfiducia nella medicina e nei medici, infiocchettando a dovere un prodotto – l’universo goop, e ogni cosa che gli gira intorno – che, per dirla con le parole di Variety, è «perlopiù incentrato su un mucchio di stronzate».

Ampliando il raggio d’azione, ci sono tantissimi matti in Take Your Pills, il documentario firmato da Alison Klayman sulla mania che impazza negli Stati Uniti: prescrivere stimolanti come Adderall o Ritalin per far fronte all’enorme richiesta di droghe (legali) che migliorino le prestazioni sul lavoro o all’università, assecondando le pressioni di una società che spinge le persone a essere sempre più instancabili e produttive. Gli adolescenti che assumono droghe ricreative per lavoro e non per divertimento sono pazzi, non ci piove, ma anche i teenager di Cheer, docuserie diretta da Greg Whiteley dedicata al cheerleading non scherzano per niente. C’è la classica allenatrice dispotica; ci sono i pom-pom (pochi); ci sono i salti (tanti e spericolati) che vedono impegnato il team Bulldogs Cheer Team del Navarro College di Corsicana, Texas. Tra costole fratturate, braccia rotte, caviglie slogate e spalle lussate, si potrebbe creare uno spin-off su un reparto d’ortopedia, tuttavia il drama fisico non è niente rispetto all’immancabile drama personale del gruppo di atleti, che non ha né una lega professionista da raggiungere, né delle squadre a cui ambire una volta conclusa l’esperienza del college.

Perché lo fanno, allora? La risposta parrebbe arrivare da Catwalk: Tales from the Cat Show Circuit, documentario di Aaron Hancox e Michael McNamara che esplora il circuito dei Cat Show (leggi: agguerritissime competizioni feline) canadesi. «Che cosa si vince in queste gare?» domanda al pubblico Kim Langille, espositrice di gatti: «Denaro? Premi? No, si vince il diritto di potersi vantare». Al grido di «Ogni gatto con un albero genealogico merita la possibilità di diventare un campione», le gattare canadesi si sfidano mostra dopo mostra, consapevoli che la gente ricorda solo i numeri uno, e quel numero uno dev’essere il loro micio. Esiste un filo invisibile che collega i Cat Show canadesi ai big cats di Joe Exotic, e si declina via via in varie forme – dalle più alle meno gravi, dalle più alle meno divertenti, dalle più alle meno pericolose – di pazzia. Noi intanto, dall’alto della nostra rassicurante monotonia, li osserviamo confortati: no, non saremo mai così, non diventeremo mai matti come voi.

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