Finale della prima stagione. Siamo al matrimonio di Shiv e Tom, il fotografo raduna gli invitati a gruppetti per gli scatti di rito. Arriva il turno di quello dei fratelli coi rispettivi partner. “Ma non può esserci anche Willa: è una puttana”, dice la sposa a proposito della fidanzata del fratello maggiore, l’inetto Connor (Alan Ruck) che voleva fare il Presidente degli Stati Uniti – ma tutti gli americani pensano di poter diventare, un giorno, il Presidente, figurarsi se non lo dava per certo il primogenito di Logan Roy (Brian Cox), il Murdoch – ma più amabile, nella stronzaggine – di cui la Prestige Tv ci ha fatto dono.
Succession, che si è chiusa per sempre (su Sky e NOW ora ci sono le quattro stagioni complete), è una foto di famiglia mai scattata. Meglio: una foto di famiglia in cui c’è sempre qualcuno che non vuole un altro membro di quella famiglia accanto (ma non funziona così per tutte le foto di famiglia?). Lo vediamo da sempre, fin dalla sigla: si apre con la foto dei piccoli fratellini Roy che nessuno di noi ha mai visto in quegli anni d’infanzia (tra i tanti meriti di questa superba serie c’è l’averci evitato qualsivoglia flashback); già in quel solo fotogramma si vedono quattro ragazzini che insieme non ci vogliono stare, quattro figli unici che si sono palleggiati per una vita l’amore inesistente di un padre assente, o l’amore intransigente di un padre troppo presente.
Di certo Logan è presentissimo nella stagione in cui muore (lo sanno tutti ormai), la stagione finale (altro merito fra i tanti di Succession: è una delle pochissime serie che sanno chiudere quando sono all’apice della forma, senza allungare il brodo) in cui si compie la successione del titolo. O forse no.
“Pics or it didn’t happen“, dice a un certo punto di quest’ultimo, magnifico episodio Roman (Kieran Culkin). Dobbiamo vederle, queste foto di famiglia, altrimenti chi ci assicura che è successo davvero? Che quel padre ha amato o odiato davvero, che quei fratelli si sono capiti o fregati davvero, che la morte l’amore l’America sono successi davvero, proprio dentro quella famiglia lì?
Succession è una serie di foto mancate, un album di famiglia in cui qualcuno, come Mia con Woody (lasciamo stare), ha sfregiato, pasticciato, censurato i volti di chi non gli piaceva più, di chi forse non gli è mai piaciuto. La foto di Shiv (Sarah Snook) e papà Logan finisce, sempre in questa puntata, dentro una scatola, quando l’appartamento del patriarca viene svuotato. È successo davvero? La figlia di papà che reclamava il posto in azienda forzando controvoglia la mano sull’era delle quote rosa (vedi pure il discorso sconnesso al funerale del babbo) meritava davvero di esserne l’erede? O doveva toccare al tribolatissimo Kendall (Jeremy Strong)? O appunto a Roman, Roman lo sboccato, Roman il troppo emotivo, Roman però anche, a conti fatti, il più simile a suo padre?
Da anni scriviamo tutti che questa mica è tv, questo è Shakespeare. E Jesse Armstrong, creatore e sceneggiatore principale, nell’ultima puntata ce lo sbatte in faccia una volta per tutte, forse un po’ anche per prenderci per il culo. C’è Shiv che dice di non voler diventare “Lady Macbeth 2” (ma non finirà esattamente così), e poi le canzoncine (però irlandesi) in rima, e questo regno che può cadere per tutto, anche per un cavallo (sì, in quest’ultima puntata c’è anche una battuta su un cavallo). Ci sono i (presunti) re e soprattutto i giullari, e una spartizione di regni e corone che restano un miraggio più della foresta di Birnam che cammina.
È una tragedia, è una commedia. Ma è la tragicommedia dei perdenti, come quelli, aspiranti Presidenti d’America, che Logan elenca (sempre in rima) nel filmino che passa dentro la tivù di casa, mentre i figli piangono come coccodrilli. È la triste farsa di quelli che nessuno vuole al suo fianco nelle foto di famiglia, e che poi però ti fottono l’eredità, e forse l’amore. “The losers never triumph”, si sente dire sempre in questo finalone, ma chissà se è vero: forse solo i perdenti sopravvivono (o credono di farlo). Anche perché troppi giri, in questi cinque anni, sono stati compiuti, prima di tornare al fallimento primigenio e genetico che accomuna, in fondo allegramente, tutti quanti. Le figure nate comiche (il Tom di Matthew Macfadyen e il Greg di Nicholas Braun) sono diventate tragiche, quelle tragiche (lo stesso Kendall) si son trasformate in fools che possono sperare al massimo in una corona di frappé. Tutti sono tornati al punto di partenza, tutti sono rimasti i loser che sono sempre stati.
La “gemella diversa” The Marvelous Mrs. Maisel – finita definitivamente nello stesso weekend, parimenti newyorchesissima (fino alla fine: la nostalgica galleria delle location in Mrs. Maisel, il bruciante tramonto sull’Hudson in Succession), scritta e girata e recitata come poche cose viste negli ultimi dieci affollatissimi anni di tv e piattaforme – tornava al via per cementare la sua ode di vero empowerment femminile (e mettere a tacere tutte le facilonerie MeToo); Succession torna là dove era cominciata per non costruire niente, bensì distruggere definitivamente i vari mondi che ha raccontato – la famiglia, i media nel passaggio dall’elefantismo novecentesco all’aggressività crypto-digitale di oggi, l’America tutta – sin dal principio.
Restano i personaggi e gli attori enormi, la scrittura spesso insuperabile, la musica seminale (Nicholas Britell, ti voglio bene), i meme più belli di sempre, il senso delle storie e della Storia. Restano le fotografie. Sfocate, sfigate, stracciate, ma grazie per averle comunque scattate.