A un certo punto della terza, sempre gloriosa stagione di Succession (finalmente anche in Italia dal 29 novembre, su Sky e NOW), uno dei personaggi – uno dei miei preferiti – sospira: «Non ci sono buoni vini in carcere». Ha paura di finire in prigione per i motivi che vedrete, ma questo non è importante ai fini di quel che Succession vuole ancora dirci. E cioè: come l’umanità abita lo spazio che le è assegnato. In questo caso: il genero viziato dai soldi del suocero immagina la sua vita da detenuto senza benefit, e sa già che non può funzionare per ragioni che sono tutt’altro che futili. Sono, relativamente ai personaggi messi in scena, comprensibilissime, umanissime.
(Quanto al quesito di poco fa, la risposta breve è: l’umanità nel mondo ci sta malissimo, fa sempre casino, diventa egomane se non più banalmente meschina, è disposta a far fuori il prossimo suo per sé stesso – ma anche solo per continuare a bere del buon vino, che non è mai biodinamico, come insegna un altro saggissimo dialogo.)
Non c’è molto da dire su Succession 3, o quantomeno non molto di più rispetto a quel che si è già detto sulla serie meglio scritta, diretta e recitata (e musicata: sempre grazie, Nicholas Britell) degli ultimi anni; e, soprattutto, del tutto priva di messaggi edificanti, e dell’ansia di farci sentire migliori guardandola. È proprio il contrario: Succession conserva il gusto di dirci che siamo tutti piccini e schifosi e come i Roy – che però, proprio in quanto piccini e schifosi, sono ancora bellissimi.
Nessuno sa stare al suo posto. Non noi che sbrachiamo sui social e nella vita post (seh, magari) pandemia, né ciascuno di questi personaggi in cerca di riconferma del proprio status. Ed è appunto nel muoversi goffamente nello spazio – negli spazi – che si gioca gran parte di questa stagione.
C’è la magnifica puntata in cui il bilionario interpretato da Adrien Brody (new entry) fa andare in tilt i due ricconi protagonisti eternamente e deliziosamente in guerra (il padre Logan/Brian Cox e il figlio Kendall/Jeremy Strong). La loro passeggiata tra le dune degli Hamptons, in cui il primo fa stronzissimamente perdere i secondi, è una specie di documentario con gli animali della savana che si fregano e si predano a vicenda.
E poi c’è la sequenza dei Roy invitati al gran ricevimento della lobby repubblicana in cui c’è in ballo la prossima candidatura alla Presidenza, e anche lì devono stare ben attenti: mai dire che «ti piace Hamilton», o ti staneranno in un secondo. (Non mi vengono in mente fotografie più sinteticamente precise di questa, a proposito dello stato della politica – non soltanto – americana.)
Lo spazio che ovviamente nessuno di loro (nessuno di noi) riesce ad abitare resta quello di sempre: la famiglia. E, anche stavolta, Succession fa quello che non fa House of Gucci: dirci che la famiglia non è il luogo in cui ci si fa “padrinescamente” fuori, ma quello in cui l’odio è inevitabile ma accettato, se vi vuole vivere serenamente insieme. Nella stagione in cui sono più vicendevolmente bastardi di sempre, i Roy sembrano finalmente pacificati.
Ultima cosa. Nell’epoca in cui le serie di maggior successo (e di gran qualità) dell’autunno ci mettono di fronte allo specchio della nostra miseria e povertà – vedi Squid Game, vedi Maid – Succession resta l’unica a mostrarci invece dei favolosi ricchi, e stronzi, e pezzi di merda, che però sono sempre più umani, sempre più teneri. Anche solo per questo, come si fa a non volerle bene.