‘The Bear’: la recensione della terza stagione | Rolling Stone Italia
YES, CHEF!

‘The Bear 3’ è tutto quello che stavate aspettando e molto di più (forse anche troppo)

Carmy, Sydney, Richie e soci ci mettono ancora più cuore, ansia e intensità. Eppure i cameo di veri chef e i troppi momenti in cui è difficile capire se quello che vediamo è reale o immaginario rendono i nuovi episodi leggermente sovraccarichi. Attenzione: la recensione contiene molti spoiler

‘The Bear 3’ è tutto quello che stavate aspettando e molto di più (forse anche troppo)

Ayo Edebiri (Sydney) e Jeremy Allen White (Carmy) in 'The Bear 3'

Foto: FX/Disney+

*** Attenzione: questo articolo contiene spoiler sulla terza stagione di The Bear, ma le anticipazioni più significative non arriveranno per un po’, e prima riceverete un altro avvertimento ***

La prima puntata della terza stagione di The Bear mostra tutte le cucine in cui Carmy (Jeremy Allen White) lavorava prima dell’inizio della serie, incluso il ristorante di New York gestito dal brillante e violento David Fields (Joel McHale). In una scena, Fields assaggia un nuovo piatto che Carmy ha ideato e per deriderlo lo paragona ai nachos perché contiene troppi ingredienti. Afferra un pezzo di nastro adesivo verde e scarabocchia un consiglio semplice semplice per il suo tormentatissimo protégé: “MENO”. È una lezione con cui vediamo Carmy lottare nei nuovi episodi. A volte è profondamente consapevole di quando un piatto, o il ristorante nel suo insieme, stanno cercando di fare troppo, e spesso ricorda alla sua sous-chef Sydney (Ayo Edebiri) che less is more. Eppure, tra le prime grandi decisioni che prende nella terza stagione c’è questa: lui e Sydney cambieranno l’intero menu ogni sera, invece di stare sulle ricette che già funzionano, e di tanto in tanto scambieranno piatti nuovi con i vecchi. Sydney giustamente si chiede perché, dal momento che il The Bear è così nuovo e precario e che l’inaugurazione insieme ad amici e parenti con il menu che hanno ideato insieme è stata un vero trionfo (be’, almeno il menu lo è stato). Carmy risponde: “Così possono vedere di cosa siamo capaci”.

Lasciando da parte la comprensibile domanda successiva di Sydney su chi siano “quelli che devono vedere di cosa siano capaci”, la spiegazione vaga di Carmy e la sua rischiosa decisione di continuare a reinventare il locale notte dopo notte sollevano interrogativi sulla filosofia artistica del creatore della serie Christopher Storer: sta cercando di aggiungere o sottrarre elementi a ciò che ha funzionato così meravigliosamente bene nelle stagioni precedenti? In un certo senso, la terza è un esempio molto intelligente, persino necessario, di come eliminare alcune delle modifiche apportate da Storer agli episodi precedenti. Ma in altri, è Storer che aggiunge ancora più ingredienti, non tutti del tutto compatibili con quelli già presenti. È ancora più ambiziosa di quanto lo fosse The Bear un anno fa, al punto che le sue idee non possono nemmeno essere contenute in 10 episodi, che infatti si concludono con un “to be continued“. La serie è ancora in grado di dare al suo pubblico la stessa magia che il cibo di Carmy e Sydney regala ai clienti. Ma i suoi salti narrativi non si collegano in modo solido e impeccabile come negli anni precedenti. E la decisione di Storer di trattare questa stagione e quella successiva (che è stata girata subito dopo, in primavera) come un’unica grande storia fa sembrare la terza un lungo antipasto.

La seconda stagione si è conclusa con l’apertura per pochi intimi di The Bear, in cui gli ospiti sono rimasti storditi dal cibo mentre lo staff è stato vittima di un disastro dopo l’altro, in particolare Carmy è rimasto bloccato nello spogliatoio per gran parte della serata. Incapace di godersi un momento di gioia di fronte a tutto quello che lui e la sua squadra hanno costruito da zero e convinto ancora una volta di essere destinato all’eterna infelicità, da dietro la porta chiusa a chiave Carmy si scagliava contro chiunque fosse abbastanza ingenuo da cercare di farlo sentire meglio, in particolare la sua ragazza Claire (Molly Gordon) e il cugino Richie (Ebon Moss-Bacharach). E l’incidente, ancora una volta, ha dato a Sydney troppe responsabilità, quando aveva già troppo in ballo perché potesse gestire anche la sua ansia. Quel finale non era proprio un cliffhanger, ma lasciava molte domande su come i personaggi avrebbero reagito in un momento allo stesso tempo così glorioso e così difficile.

The Bear | Season 3 Official Trailer | Jeremy Allen White, Ayo Edebiri, Ebon Moss-Bachrach | Disney+

*** E ora arrivano gli spoiler più significativi sulla terza stagione, non andate oltre se non volete leggere anticipazioni ***

La terza stagione lascia il pubblico sulle spine, in attesa di tutte queste risposte. Il primo episodio può farla franca solo in una serie così amata (e che scegli di far uscire tutte le puntate in una volta, anziché una alla settimana). Sebbene ci offra scorci di Carmy e degli altri nelle ore immediatamente successive all’inaugurazione del ristorante, è interessato soprattutto al passato di Carmy Berzatto. Mentre torna al The Bear la mattina dopo essere uscito dallo spogliatoio e inizia a delineare il suo nuovo, grandioso progetto per il ristorante, diamo uno sguardo a tutte le tappe precedenti del suo viaggio culinario, con camei di figure reali come Daniel Boulud e René Redzepi e di personaggi immaginari come David Fields e Luca, il pasticciere che ha insegnato a Marcus (Lionel Boyce) il mestiere in un memorabile episodio della seconda stagione. Ci sono dialoghi qua e là, ma il tutto è essenzialmente un poema sinfonico che cerca di farci entrare nella testa del nostro eroe ancora più del solito. Sappiamo quanto sia rimasto traumatizzato dal sadico stile di insegnamento di David, ma brucia ancora di più se messo a confronto con i modi in cui Andrea Terry (Olivia Colman) – la geniale chef il cui ristorante, Ever, ci è stato presentato nella seconda stagione come il migliore al mondo – esprime disapprovazione con fermezza ma senza mai essere crudele. È una perfetta apparecchiatura della tavola di questa stagione.

E poi è come se The Bear ritornasse alle sue origini. La prima stagione era ambientata sul posto di lavoro più stressante nella storia dell’intrattenimento audiovisivo. Tutti discutevano in continuazione, e anche le buone idee finivano malissimo, come l’errore di Sydney con il sistema di ordinazione online nell’episodio intitolato La recensione e diventato un instant classic. La seconda stagione non era esattamente priva di stress, sia nel finale che nell’episodio flashback natalizio Pesci, ma nel complesso è stata più “calda” ed edificante. A questo punto Carmy e Sydney avevano convinto Richie, Tina (Liza Colón-Zayas) e il resto dello staff che avrebbero potuto contribuire tutti a un locale che aspirava a qualcosa di più grandioso che preparare il miglior sandwich di manzo italiano a Chicago. La seconda stagione verteva sull’idea che tutti possono diventare la versione idealizzata di loro stessi. Anche Carmy è riuscito a sorridere di tanto in tanto, grazie a questa nuova relazione con la sua vecchia amica Claire. Se La recensione era l’episodio-simbolo della prima stagione, quello della seconda era Forchette, ovvero in che modo i cinque giorni trascorsi da Richie come apprendista a Ever abbiano cambiato la sua intera personalità in meglio, e non solo perché ora indossa addirittura degli abiti su misura. Quando l’azione riprende nel secondo episodio di questa stagione, Richie è ancora furioso per le cose che Carmy gli ha detto dall’altra parte della porta, Sydney si sente tradita dalla decisione di Carmy di cambiare il menu – il loro menu – senza prima averla consultata e Marcus è stordito dalla morte della madre malata mentre lui si stava facendo il mazzo durante l’inaugurazione del ristorante. Sono tutti in una situazione emotiva pessima. Ma, pensando a dove eravamo rimasti, per gli sceneggiatori sembra una mossa naturale, anziché tornare goffamente allo status quo così efficace nel 2022.

Il secondo episodio è composto in gran parte da una sola scena, in cui arriva in cucina un personaggio dopo l’altro, viene a conoscenza dell’elenco esagerato di “condizioni non negoziabili” di Carmy e cerca di capire come diavolo sono arrivati ​​a quel punto dopo il trionfo di pochi giorni prima. L’episodio è inserito tra il primo, che ripercorre gli anni precedenti della vita di Carmy, e il terzo, che racconta un mese nella vita di The Bear, dove il menu in continua evoluzione di Carmy e il conflitto tra lui e Richie incasinano sempre di più la situazione del ristorante, sia in senso letterale che emotivo. È un attacco potente per iniziare la stagione e per ricordare quanti modi Storer e la compagnia abbiano trovato per raccontare quella che a prima vista sembrerebbe essere una storia semplice ambientata in un posto di lavoro interessante. E anche il secondo episodio non è del tutto lineare e compatto. I titoli di testa scorrono su un montaggio documentaristico di veri dipendenti del terzo settore – da chef e camerieri ad addetti alla pulizia di hotel e guidatori degli spazzaneve – al lavoro in una bella giornata a Chicago. E quello che all’inizio sembra solo un bel montaggio si trasforma in qualcos’altro, quando molte di quelle persone iniziano a salutare guardando nella macchina da presa. Per alcuni minuti, la verosimiglianza di The Bear svanisce e guardiamo persone entusiaste di essere in Tv e orgogliose di vedere il loro duro lavoro riconosciuto da questa serie. The Bear resta sempre una lettera d’amore alle persone che preparano e servono il nostro cibo e che puliscono dopo che abbiamo cenato; è solo che in questo montaggio lo diventa ancora più apertamente.

Non c’è altra rottura della quarta parete, ma questa stagione è ancora di più una miscela di realtà e finzione rispetto alla precedente. Oltre a Boulud e Redzepi, compaiono altri chef famosi come Thomas Keller. Il finale di stagione è ambientato durante il funerale metaforico di un ristorante – dopo che gli episodi precedenti ne offrono due letterali: quello del fratello maggiore di Carmy, Mikey (Jon Bernthal), in un flashback della prima puntata, e quello della madre di Marcus all’inizio della seconda – quando la chef Terry invita tutti i suoi amici gourmet a godersi un ultimo pasto all’Ever prima di chiudere per sempre. La lista degli ospiti include tra gli altri Wylie Dufresne, Genie Kwon e Grant Achatz, che condividono aneddoti delle loro carriere reali mentre Sydney, Luca e altri fanno lo stesso con quelle di finzione. E se tutti gli chef sono ovviamente a loro agio nello stare davanti alla cinepresa, c’è ancora una differenza palpabile nell’energia tra loro e gli attori, soprattutto perché molte di quelle conversazioni da personaggio a chef sono intervallate da quelle da personaggio a personaggio. È divertente quando Luca non smette di assillare Achatz con domande ossessive sui suoi piatti d’avanguardia. Quando invece l’azione passa da Luca e Achatz a Richie, che esce con i suoi amici dello staff dell’Ever (interpretati da Andrew Lopez, Sarah Ramos e Rene Gube), torniamo improvvisamente a guardare The Bear, ed è molto più avvincente, anche quando Richie si limita a scambiare battute con loro. L’ultimo episodio si apre con una versione extended di una scena intravista brevemente nel primo, che mostra il primo giorno del giovane chef Carmy al venerato French Laundry di Keller. Keller si prende qualche minuto per dare un po’ di attenzione, affetto e consigli al nuovo arrivato. Quel momento ha lo scopo di offrire un contrasto con quello che Carmy ha sofferto sotto la guida David Fields, che è compiaciuto e irremovibile quando Carmy lo affronta all’Ever; Fields continua a insistere sul fatto che la sua cattiveria abbia reso Carmy un grande chef (*). Ma la lunga scena di Keller sembra un po’ ridondante, se non autoindulgente. Le scene di Terry nel primo episodio avevano fatto passare lo stesso concetto in modo molto più efficace, grazie anche al fatto che Olivia Colman è un’attrice incredibile, mentre Thomas Keller è uno chef brillante e un bravo “narratore”, ma decisamente non un attore (**).

(*) La loro conversazione riecheggia anche uno degli scambi più celebri di Mad Men, quando il copywriter junior Michael Ginsberg dice a Don Draper: “Mi dispiace per te”, e Don risponde freddamente: “Ma chi ti calcola”. Qui Carmy confessa di pensare troppo a David, come modo per chiudere in qualche modo il cerchio. David risponde: “Ma chi ti calcola”, ma non è una provocazione come quella di Don, solo sincera incredulità.

(**) Guardate le scene degli chef anche in contrasto con le brevi apparizioni del co-creatore di Billions Brian Koppelman nei panni del “Computer”, l’avvocato e fixer ossessionato dai dettagli di Jimmy (Oliver Platt), lo zio di Carmy. Koppelman è uno scrittore di professione, ma ha già interpretato piccoli ruoli sullo schermo, e The Bear non gli chiede troppo oltre la presenza asciutta e imperturbabile a cui molti showrunner dovrebbero aspirare.

Perché la terza stagione, e il finale in particolare, si basano così tanto su Keller, Malcolm Livingston II e gli altri? Per i buongustai tra il pubblico, è facile stabilire che queste superstar considerano Carmy un pari – e che Richie e Sydney sono diventate superstar per associazione, nel bene e nel male. (Gran parte dell’arco narrativo incompiuto di Sydney riguarda il suo crescente disagio nel vivere all’ombra di Carmy, e nella consapevolezza che lui non la tratta da partner creativa come aveva promesso.) Ma è chiaro che Storer e compagnia vedono il finale, e la terza stagione nel suo insieme, ancora di più come un inno alla bellezza dei ristoranti in tutte le loro forme. Mettere i veri capi a parlare del perché il loro lavoro è importante è la rappresentazione più letterale e meno interessante degli altri modi in cui The Bear cerca di trasmettere la stessa cosa. Si racconta di più e si mostra di meno, in una serie che – vedi il primo episodio di questa stagione – può essere tanto potente con pochissime parole. Non abbiamo bisogno di sentire Carmy dire alla chef Terry che “è un miracolo che esistano questi posti”, perché abbiamo visto sia il potere dell’Ever che quanto sia difficile per il The Bear anche solo sperare di raggiungere quel livello.

Ebon Moss-Bacharach (Richie) in una scena della terza stagione. Foto: FX/Disney+

E sembra ancor più stupido di prima il fatto che The Bear sia a pochi mesi dalla vittoria del secondo Emmy consecutivo come miglior serie comedy. Certo, è divertente sentire Richie gridare insulti a Carmy, ma la terza è una stagione drammatica, punteggiata da occasionali momenti divertenti sui fratelli Fak, Neil (Matty Matheson) e Ted (Ricky Staffieri). Quest’anno la serie punta molto su di loro, trasformando la tradizione “ossessiva” della famiglia Fak in punti chiave della trama e introducendo vari Fak di contorno, uno dei quali interpretato da John Cena. Matheson è straordinariamente carismatico, e la buffoneria di Neil e Ted spesso fornisce una manna spensierata nel deserto tormentato dall’ansia del resto della serie. Se negli episodi passati spuntavano guest star importanti come Bob Odenkirk o John Mulaney (che riappare fugacemente nella prima puntata di questa stagione, dato che Carmy dormiva sul divano di Stevie a New York), sono sempre sembrate persone nate in questo mondo; Cena è il primo ad essere inserito in maniera un po’ più spericolata. (Al contrario, Josh Hartnett – in linea con l’Hartnett-aissance, il rinascimento della sua carriera – si adatta perfettamente al ruolo di Frank, il fidanzato dell’ex moglie di Richie, Tiffany, interpretata con grande calore ancora una volta da Gillian Jacobs.)

Eppure, nonostante alcune altre idee che non funzionano – come Claire, un non-personaggio in cui sia Carmy che The Bear hanno investito troppo tempo e sforzi – la serie è ancora capace di momenti trascendentali, grandi o piccoli che siano.

La metà della stagione offre un paio di episodi che sono sequel ideali di puntate dell’anno scorso. Fazzoletti è un cugino stilistico di Forchette: è l’episodio in cui scopriamo in che modo Tina è finita a lavorare per Mikey in quello che allora era il The Original Beef of Chicagoland; mentre nell’ottavo episodio ritorna da Pesci (e da una scena memorabile nel finale della seconda stagione) Jamie Lee Curtis nei panni della madre psicologicamente disturbata di Carmy, Didi, che si rivela essere l’unico parente disponibile quando la sorella di Carmy, Natalie (Abby Elliott), entra in travaglio. Nessuno dei due episodi è nel complesso al livello dei predecessori, e la conversazione in sala parto tra Natalie e Didi a volte soffre di qualche lungaggine. Ma ci sono momenti notevoli, come il tremore spaventato nella voce di Didi, o il modo in cui quello stesso episodio usa il cardiofrequenzimetro fetale come colonna sonora (*). E la prima conversazione tra Tina e Mikey alla fine di Fazzoletti è un gioiellino sottovalutato, che irradia umanità e approfondisce la nostra comprensione del motivo per cui Tina era così ferocemente protettiva nei confronti del “sistema” di Mikey quando Carmy e Sydney arrivarono al The Beef.

(*) Colonna sonora che stavolta utilizza varie canzoni come temi portanti di tutta la stagione. La musica dei Beastie Boys diventa il segnale che siamo tornati nel territorio dell’Original Beef, nel passato o nel presente, mentre varie versioni di Save It for Later della band inglese The Beat si sentono ogni volta che Sydney o qualcun altro si trova davanti a un bivio creativo.

E anche se il finale pare sballato, alla fine ritorna a Carmy e Sydney, la cui storia è al di sopra di ogni altra trama, e ci ricorda che i miracoli hanno un loro prezzo, spesso molto alto. Forse, se Carmy fosse tornato all’Ever invece di andare a New York, sarebbe potuto diventare un degno successore di Andrea Terry. Esistono parecchie prove del fatto che la correlazione non equivale alla causalità, quando si tratta di comportamento tossico e genio. Ma ciò vale per David Fields, che ha scavato in ogni singola crepa che si era formata nell’armatura emotiva di Carmy a partire dall’infanzia accanto a una madre malata, un padre assente e un fratello imprevedibile che idolatrava troppo. Di conseguenza, Carmy è diventato uno chef eccezionale e un boss terribile. Sappiamo quanto sia tormentato, vulnerabile e in fondo anche dolce, quindi cerchiamo di dimenticarne le sue azioni peggiori. Ma quando Sydney lascia il suo appartamento, dove ha appena cucinato delle pizze surgelate con la chef del più grande ristorante del mondo, per poter stare da sola e sfogarsi in un pianto a dirotto, capiamo che Carmy le ha fatto un torto enorme, come una volta David a lui. Carmy l’aveva già cacciata una volta rimproverandola per l’errore madornale commesso nella Recensione, e lei passa gran parte di questa nuova stagione rifiutandosi di firmare l’accordo per una quota di proprietà di The Bear, mentre prende davvero in considerazione l’offerta di diventare la chef di un nuovo ristorante aperto dal protetto di Terry, Adam (interpretato da Adam Shapiro). Non si fida di Carmy, pensa che Carmy non si fidi di lei o che non la stimi, e capisce che non importa quanto lei contribuisca a The Bear: sarà sempre visto come il posto di Carmy e non il suo.

Carmy e Sydney aspetteranno per l’intera stagione una recensione del Chicago Tribune, che sembra diventare ancora più cruciale quando lo zio Jimmy suggerisce di chiudere il ristorante se sarà negativa. Vediamo Carmy immaginare varie recensioni nella sua testa, sia positive che negative. Quindi, quando Carmy riceve finalmente un avviso da Google sulla pubblicazione di quell’articolo proprio negli ultimi secondi della stagione, è impossibile distinguere quanto di quello che vediamo sia reale e quanto invece sia solo nella sua testa. E se quella è la vera recensione, è difficile capirne la tesi complessiva, visto che vediamo solo un mucchio di aggettivi fuori contesto, alcuni decisamente positivi (“innovativo”, “eccellente”, “delizioso”), altri apparentemente negativi (“confuso”, “esagerato”, “incoerente”). Che stia leggendo qualcosa o immaginandolo, Carmy impreca, suggerendo che potrebbe non essere la recensione brillante di cui aveva bisogno per salvare il ristorante.

La recensione di The Bear che state finendo di leggere è contrastante, anche se il mio giudizio complessivo tende molto di più al positivo. Se mi sono soffermato di più sulle parti della terza stagione che mi hanno deluso, è perché ho sempre portato in palmo di mano la serie in passato. Le parti che amavo allora sono ancora presenti, anche se ad esse si aggiungono scelte che non funzionano altrettanto bene, a partire dalla scelta di lasciare la stagione incompleta. Nella sua forma migliore, The Bear resta innovativa, eccellente e resa in modo così vivido da essere sempre bellissima da guardare. Ma in alcuni punti sembra anche confusa, esagerata e incoerente. Il che, suppongo, rende questo articolo una recensione contro cui anche Carmy Berzatto imprecherebbe. Per quanto io e lui detestiamo David Fields, valeva la pena seguire alcuni dei consigli di quell’uomo, e la terza stagione di The Bear avrebbe fatto bene a tenere a mente quel monito in particolare: “MENO”.

Da Rolling Stone US