The Last Dance non è la miglior serie sportiva dell’anno, è la miglior serie dell’anno punto, senza qualificativi di genere. Per chi conosce il basket Nba e la personalità di Michael Jordan la serie ha dell’incredibile: mai prima d’ora si era visto MJ parlare di basket così apertamente, ancor meno parlare della sua vita personale. Una cosa semplicemente impensabile.
L’accesso che il regista Jason Hehir ha avuto al più grande giocatore di basket della storia non è stato infinito: in tutto si è trattato di tre interviste, per un totale di 8 ore scarse di girato. Jordan non ha voluto registrare a casa sua, e così la produzione ha dovuto affittare una villa per la prima intervista (quella con MJ in t-shirt blu, per capirsi), mentre per le successive due si è fatta prestare casa da conoscenti che potessero avere “degli spazi e uno stile di interni simili a quelli che avrebbe potuto avere Jordan”, parole del regista – cose da gringos.
Racconta Hehir che il giorno della prima intervista si è rivolto timidamente a MJ chiedendogli che cosa pensasse dello script che gli aveva mandato. “Non l’ho letto – lo ha fulminato Jordan – ma ti ho promesso che avrei parlato, quindi chiedi quello che vuoi e io ti dirò la verità”. E così è stato: è nella prima intervista che infatti Michael affronta temi per lui scomodi come il famoso “Republicans buy sneakers too” e il mancato endorsement al candidato afroamericano democratico Harvey Gantt per le elezioni a Governatore del North Carolina, fatti che gli costarono aspre critiche e impietosi paragoni con un eroe del movimento per i diritti civili come Muhammad Ali.
Ma nulla di quel che abbiamo visto sarebbe stato possibile se da qualche oscuro archivio della Nba non fossero saltate fuori queste centinaia di ore di riprese video della stagione 1997-’98. Un patrimonio incredibile di immagini, impensabile per le rigide consuetudini dell’Nba dell’epoca, ancor di più per le regole di “distanziamento sociale” che i Chicago Bulls di Phil Jackson già applicavano ai media in ere decisamente pre-Covid. E quindi eccoci sul bus della squadra, in aereo in trasferta, in hotel, a bordo campo durante le partite, negli spogliatoi dello United Center e sui gradoni del Berto Center durante le sedute di allenamento.
The Last Dance è il miglior documentario sportivo di sempre – sì, anche rispetto a Hoop Dreams o a When We Were Kings – innanzi tutto perché racconta l’ultima stagione di una delle più forti squadre Nba di sempre – per alcuni la più forte – una squadra in grado di vincere due three-peat in otto anni. È il miglior documentario di sempre perché parla del più forte giocatore di basket di sempre, probabilmente il più grande atleta che sia apparso sul globo terracqueo senza distinzione di disciplina. Se quel che è stato Jordan nel gioco non ha paragoni, per quel che è stato fuori dal gioco non esistono nemmeno i parametri logici atti a esprimerlo. Jordan è stato la più grande popstar degli anni ’90, più grande di Michael Jackson, una forza culturale ed economica che ha messo al sicuro i destini della Nba per i decenni a venire e ha condizionato intere generazioni di giocatori. Per lui si sono cambiate le regole del gioco: i primi Bulls giocavano con MJ in isolamento e gli altri quattro sul lato debole, praticamente fuori dal campo. Il risultato era un canestro più o meno a ogni azione. L’Nba si è dovuta inventare un’illegal offense (ripeto: illegal OFFENSE!) per limitarlo. Chi non è avvezzo al basket forse non ne comprende la magnitudine. Sarebbe come dire che, nel calcio, dato che Ronaldo (il brasiliano) o Messi erano troppo veloci palla al piede e finivano in porta dribblando tutti gli avversari, ogni tre tocchi di palla fosse reso obbligatorio il passaggio a un compagno. Ecco, Jordan era così forte da risultare più conveniente per il suo coach attaccare il canestro solo singolarmente attraverso di lui piuttosto che sfruttare tutte le possibilità derivanti dal fatto che il basket sia un gioco di squadra. Non so se è chiara l’entità dell’assunto.
The Last Dance è il più grande documentario sportivo di sempre anche per un altro motivo.
The Last Dance distrugge ogni stereotipo del racconto sportivo e al contempo ne fa a pezzi ogni singolo luogo comune. È impermeabile alla retorica dello sport maestro di vita, di più: ne è apertamente in contrasto. The Last Dance è la cronaca di un fatto unico e irripetibile, non è uno di quei documentari da cui si traggono delle costanti esistenziali da calare nelle proprie esperienze.
Partiamo con la vittima numero uno: il concetto di “gruppo” viene semplicemente raso al suolo. I Bulls del ’98 – così come le versioni degli anni precedenti – sono stati il gruppo più disfunzionale possibile. Giocavano contro il front office sapendo che si sarebbero disgregati a fine stagione. Giocavano per loro stessi in aperta opposizione alla società e ai suoi dirigenti. E quindi, voilà, annichilita anche la stucchevole retorica del “si vince tutti insieme, dal presidente ai magazzinieri”. E a chi è già pronto a obiettare che “le difficoltà ricompattano il gruppo”, niente da fare, sbagliato anche qui. Il gruppo a ben vedere non era poi questo gran gruppo, se è vero che uno dei cardini dei primi Bulls fu Horace Grant, secondo MJ colpevole nientemeno che di essere la fonte anonima di Sam Smith per le rivelazioni pubblicate nel best-seller The Jordan Rules che fece la sua comparsa a metà della stagione 1991-’92 e che portò Jordan al silenzio stampa. MJ smise di rivolgere la parola a Grant, il terzo miglior giocatore della squadra, e i Bulls vinsero altri due titoli.
Ma non è tutto. Chicago giocava con un leader che – si direbbe oggi – bullizzava e sistematicamente terrorizzava i compagni di squadra. Li umiliava, in privato e in pubblico, e imponeva che non venisse passato ad alcuni di loro il pallone nei minuti finali delle partite (Bill Cartwright, anyone?). Non si fidava di loro, li giudicava troppo scarsi per avere la palla in mano quando contava. Il documentario è pieno di testimonianze in questo senso: da Steve Kerr a BJ Armstrong, da Scott Burrell a Bill Wennington, da Jud Buechler a Bill Cartwright, da Toni Kucoc allo stesso Phil Jackson, ecco una sequenza di definizioni del nostro: “Se avessimo giocato male ci avrebbe detto: ‘Ehi figli di puttana, oggi avete fatto schifo. È meglio che vi facciate trovare pronti domani in palestra’” (Toni Kucoc); “Ci sfidava continuamente, se la prendeva letteralmente con noi” (Steve Kerr); “Si aizzava in allenamento, si scontrava con la gente. Spesso dovevo chiedergli di abbassare i toni e mantenere il livello minimo di cameratismo tra compagni” (Phil Jackson); “Le persone erano spaventate da lui. Noi eravamo i suoi compagni ed eravamo spaventati. Quello che provavamo era paura” (Jud Buechler); “MJ era una persona gentile? Con la mentalità che aveva non avrebbe potuto essere una persona gentile. Era difficile stargli intorno se non amavi il basket con tutto te stesso” (BJ Armstrong); “Vincere ha un costo; la leadership ha un costo. Chi dice ‘Non era una persona gradevole, era un tiranno’ non ha capito niente: forse stai parlando di te stesso perché non hai mai vinto niente. Io volevo vincere e volevo che i miei compagni vincessero. E se non vuoi giocare come gioco io, allora non giocare” (Michael Jordan). Quel che se ne ricava è la descrizione, anche abbastanza raggelante, di un clima di terrore che sfida tutti i manuali fai-da-te sulla costruzione di organizzazioni umane di successo. Eppure Chicago vinceva. Sempre.
Quindi ecco il roster dei Bulls del ’98, l’ultimo giro di danza di un non-gruppo, governato da un general manager geniale ma detestato dalla squadra (Jerry Krause) e allenato da una specie di sciamano zen che invitava i giocatori – a metà campo durante gli allenamenti – a venire in contatto con gli spiriti ancestrali degli antenati nativi americani. Il più grande giocatore di sempre (MJ), il più grande rimbalzista di sempre (Dennis Rodman), il miglior secondo violino di sempre (Scottie Pippen), uno dei più forti giocatori europei della storia (Toni Kucoc), più Ron Harper (difensore assoluto e marcatore da 20 a sera prima di venire ai Bulls), uno dei più forti role player di sempre (Steve Kerr) oltre a due solidi lungagnoni come Luc Longley e Bill Wennington e un talento inespresso ma esplosivo come lo Scott Burrell dell’epoca.
Rodman merita ovviamente un capitolo a parte: lui sì è stato uno dei più grandi teammates della storia del gioco – ma attenzione: in campo – di certo fuori dal campo non fu mai l’elemento distensivo ideale all’amalgama del gruppo. Quando Pippen decide di operarsi in ritardo saltando metà stagione per dare fastidio a Jerry Krause, Rodman comincia a impegnarsi seriamente perché i Bulls perdono partite e Michael da solo non basta. Impegnarsi per Rodman significava fare una cosa che non aveva avuto più intenzione di fare da tempo: tirare a canestro. I Bulls ricominciano a vincere. Poi Pip ritorna e Dennis decide che è ora di prendersi una vacanza: si va a Las Vegas a bisbocciare. Dovrà essere MJ in persona a tirarlo giù dal letto – insieme a una Carmen Electra che non si era resa conto “che eravamo nel mezzo della stagione” – e a riportarlo a Chicago in tempo per vincere un altro titolo. Di Rodman si è detto tanto ai tempi in cui giocava, e tanto dopo: da Madonna a Kim Jong-un, passando per alcol, droghe, fucili e tentativi di suicidio, ma non si sottolinea mai abbastanza che razza di giocatore fosse. Figlio di Philander Rodman jr – a sua volta discreto soggetto avendo messo al mondo 29 creature da 16 donne diverse –, Dennis è considerato tra i tre migliori difensori sulla palla e il miglior rimbalzista della storia dell’Nba. Indimenticabile la sequenza in cui descrive la sua tecnica di rimbalzo spiegando in che modo calcolava la traiettoria del pallone a seconda del tiratore, del tipo di tiro e della rotazione della sfera una volta arrivata al ferro. Chi ama il gioco l’avrà trovata una cosa di una bellezza addirittura commovente, una delle più formidabili in assoluto di tutto il documentario.
Per prepararsi all’intervista con Hehir inutili sono stati gli invii di materiale da parte della produzione. Il giorno dell’incontro, Rodman, due ore in ritardo, si è presentato al regista chiedendogli chi fosse e di che cosa esattamente dovessero parlare. “The Last Dance – gli ha ripetuto Hehir per la trentesima volta – i Bulls del ’98, Michael Jordan, i tre anelli. Ti ricordi?”. “Ti dò dieci minuti – gli ha risposto Rodman – e fammi portare una zuppa di tonno di Subway”. Tre ore dopo era ancora seduto a parlare di basket ma anche di Corea del Nord e di pick-up. Non è andata meglio con Phil Jackson: dopo un doppio scalo eccoci in Montana, buen retiro del maestro zen. Hehir arriva, suona il campanello, appare Jackson. Non fa in tempo a presentarsi che gli si chiude la porta in faccia: “piuttosto dolcemente però”, ricorda il regista. Il nostro si fa coraggio e tenta un secondo approccio. “Chi terrà le fila della narrazione?” “Io” “E tu che ne sai dei Bulls?” “Ho letto più di 10mila pagine su di voi” “Dimmi i titoli dei libri che hai letto”. Tutto così, sull’uscio, prima soltanto di pensare di poterlo fare entrare in casa. No, i Bulls del ’98 non erano una compagine di compagnoni.
Qualcuno ha detto che se giocasse nell’Nba di oggi Jordan segnerebbe 50 punti di media a sera. Non c’è dubbio. Oggi il gioco è perlopiù ridotto a uno spensierato tergicristallo su e giù per il campo inframmezzato da dozzine di tiri da tre punti. Gli attacchi sono cambiati, soprattutto le difese sono cambiate. L’Nba di MJ era quella di fine anni ’80: alcol e cocaina in spogliatoio – memorabile la parentesi sul “Bulls travelling cocaine circus” – e botte da orbi sotto canestro. Era l’Nba che senza Doctor J, Magic Johnson e Larry Bird avrebbe chiuso i battenti. Poi è arrivato Michael che ha rilevato il testimone e l’ha fatta diventare quell’incredibile macchina da soldi che è ora. Jordan è stato la perfezione del gioco, i mille movimenti immarcabili, i voli a canestro. Non solo l’eleganza panteresca del gesto, la non parabola di tiro come scelta stilistica, la vittoria come unico obiettivo pensabile. In nome della vittoria MJ ha sacrificato tutto: non ha mai guadagnato quanto avrebbe dovuto (certo, gli sponsor coprivano abbondantemente le mancate entrate dei Bulls) e si è isolato dal resto dal mondo. L’audio della vittoria del 1996 è incredibile, con Jordan a terra che si contorce di gioia e sofferenza, fino ad oggi Dio con la canotta numero 23 l’avevamo visto solo muto, e invece singhiozzava disperato.
Tracy McGrady – un Jordan che non è stato – ha detto che avrebbe desiderato che The Last Dance fosse uscito quando era ancora un giovane giocatore, e si riferiva con rimpianto al suo rapporto troppo soft con i compagni di squadra. Chi non deluse MJ fu sicuramente Kobe Bryant, la sua copia (quasi) perfetta. Lo si vede dalla prima casella del gioco: All Star Game 1998, Madison Square Garden, New York. Il primo per Kobe, apparentemente l’ultimo di MJ (ma ne giocherà altri due). Siamo in spogliatoio prima della palla a due e Jordan parla solo di “quel ragazzo dei Lakers che la vorrà mettere sull’uno contro uno. Non lascerà che la partita gli arrivi, andrà in campo e l’aggredirà. Lascerò che questa cosa accada: questa partita diventerà l’uno contro uno che vuole”.
Hehir – che per il documentario ha intervistato Bryant circa un mese prima della sua morte – racconta che far aprire Kobe non è stato facile. “Quando hai cominciato a idolatrare Jordan?”, ha esordito il regista. “Ero un fan di Magic Johnson”, lo ha gelato il 24. Non era vero, tutti sanno che MJ fu il vero idolo di Bryant, ma così si esprime la grandezza quando viene sfacciatamente solleticata. Tu non vieni a casa mia ad aspettarti che io ti canti il peana in onore di Black Apollo, tu non mi distribuisci la tua bella parte in commedia e ti metti lì comodo a raccogliere i dividendi. Nella testa di uno come Bryant c’è la sfida tanto quanto c’è nella testa di uno come Jordan. C’è – c’era (che dolore) – quel senso di grandezza assoluta, di essere il goat, anche se il goat era l’altro e lo sapeva. Bryant accetta di parlare di Jordan ma non accetta di essere lì a rendere semplice testimonianza. Poi, con il passare dei minuti, quando Hehir gli chiede chi avrebbe vinto uno contro uno, ecco che Kobe sputa la sua vera anima: “Yo! What I got, it came from him”: calma, non ne parliamo nemmeno, non è questo l’argomento di discussione.
Bryant, come Jordan, ha avuto bisogno di trovare nuovi stimoli laddove forse non ce n’erano. Come Jordan ha ingigantito le rivalità, si è inventato sempre nuovi nemici. Ecco, non ha avuto quell’infinita pletora di best actor in a supporting role che ha avuto il 23. Tutta una carriera accompagnata dalla presenza di questi improbabili villain pronti a sfidarlo – cioè pronti al suicidio. Horace Grant, George Karl, BJ Armstrong, Danny Ainge, John Starks, Dan Majerle, Nick Anderson, l’incolpevole LaBradford Smith: oggi abbiamo conferma che più o meno la metà erano invenzioni a cui MJ finiva per dar credito solo per auto-motivarsi.
Come possa un uomo del genere aver gestito la fase del post agonismo rimane un mistero. Non solo quella di ex giocatore, ex superstar, ex divinità, ma semplicemente quella di ex atleta, alla fine di ex giovane uomo. L’invecchiamento non deve essere stato un accidente particolarmente semplice da accettare per Jordan. Ancora oggi vedi le tracce di quell’anima irriducibile: nella risata sguaiata e priva della benché minima considerazione rivolta in direzione di Gary Payton reo di aver ipotizzato che se avesse marcato Jordan da Gara-1 delle Finals 1996 forse il risultato sarebbe potuto cambiare. E Payton è un suo amico. La vedi nella rabbia e nel disgusto che esprime ricordando quando al rientro dal primo infortunio i Bulls ne limitavano il tempo di gioco e MJ sospettava – e ancora sospetta – che la motivazione fosse quella di accaparrarsi una draft pick migliore a fine anno. Poi però John Paxson mette dentro il canestro che porta per la prima volta i suoi Bulls ai playoff, e quel disgusto immediatamente si apre in un sorriso di gioia, perché è vero che lui era assurdamente in panchina, ma la palla è entrata e Jordan, a distanza di 30 anni, è felice. Perché hanno vinto.
The Last Dance è un documentario unico. È unico perché dimostra che non esiste una sola verità. Non c’è una sola strada, un unico modo per vivere e vincere. Nello sport – e qui sì anche nella vita – si può procedere per metodi distinti, partendo da punti di vista opposti per arrivare allo stesso risultato finale. In fondo è il bello dell’esistenza, le possibilità sono davvero infinite. Questo ci racconta The Last Dance, l’ultimo giro di ballo della band più grande del basket moderno, un trionfo di personalità inassimilabili, guidate da un santone che parlava rigorosamente d’altro. Eppure nessuno come loro, per questo li abbiamo guardati con stupore e a volte incredulità – come d’altra parte si fa di fronte al cinema, quello vero – cercando di capire se qualcosa di quella formidabile vicenda sia applicabile alle nostre vite. La risposta è no, non lo è.