Quattro minuti, 4 minutes to save the world, per dirla con Madonna e Justin Timberlake. Quattro minuti per salvare il suo, di mondo, quando Gordon Ford voleva privarla di quel momento che avrebbe cambiato tutto. E quattro minuti per salvare il nostro, con una serie che è stata splendida dall’inizio alla fine, nell’era della produzione bulimica di contenuti spesso poco costanti nella qualità e della cancellazione altrettanto incontrollata. Perché non è vero che il pubblico si appiattisce su quello che gli propinano, se gli dai un capolavoro come The Marvelous Mrs. Maisel lo ama e lo riverisce pure. Quattro minuti per salvare un mondo in cui alle donne si dice che sono toste, che possono farcela da sole, ma poi c’è bisogno delle quote rosa, delle giurie che ti fanno l’occhiolino e magari ti piazzano davanti a un uomo che quella volta ha fatto meglio. Ecco, Midge ci mostra un mondo in cui, se sei donna, hai più talento e combatti con tutta te stessa, vieni premiata, non un mondo in cui succede anche che tu venga premiata perché sei donna.
In realtà, il monologo da standing ovation di Midge (una Rachel Brosnahan brava, bravissima, ormai oltre qualsiasi riconoscimento) di minuti ne dura quasi il doppio, e Mrs. Maisel se lo conquista con le unghie, con i denti e un favoloso little black dress di Bergdorf Goodman: contro la sua volontà (e soprattutto il suo ego), Gordon Ford (Reid Scott) è stato costretto dalla moglie (Hedy, che in gioventù aveva avuto una storia con Susie; che sì, è queer, sorpresa! anzi, no) e dare spazio a Midge nella trasmissione, ma vuole relegarla alla comparsata misogina della resident lady writer del programma su uno sgabello. Midge non ci sta e al grido di “tits up” (e dopo uno sguardo d’intesa – giù lacrime – con la sua manager Susie: viva sempre Alex Borstein) si prende la ribalta e piazza una raffica di battute che più on point non si può, ma sempre con il sorriso: da “Sono salita su un palco, ho preso un microfono e in quel momento ho scoperto com’era essere ascoltata dalle persone: certo, non dagli uomini, intendiamoci” a “Se devo cambiare una ruota, be’ chiaramente lo farà qualcun altro: sono indipendente, mica idiota”. Fino al colpo finale: “Dicono che l’ambizione renda meno attraente una donna. Forse. Ma sapete cosa non è davvero attraente? Aspettare che succeda qualcosa. Guardare fuori dalla finestra, pensando che la vita che dovresti vivere stia lì fuori da qualche parte, ma non avere il coraggio di aprire la porta e andartela a prendere, anche se ti dicono che non puoi”. Sbam, questo sì che è empowerment, vedi i colleghi autori maschi (!), bianchi (!) e cisgender (!) che fanno chapeau a Miriam.
Così Midge è diventata una star: sapevamo che ce l’aveva fatta dall’inizio dell’ultima stagione, ma ancora non ci era stato svelato in che modo. La creatrice Amy Sherman-Palladino è riuscita a chiudere splendidamente il cerchio proprio come l’aveva immaginato, prendendosi tutto, ma proprio TUTTO il tempo necessario (compresi flashback e flashforward che allargano lo sguardo, la narrazione e dunque la comprensione del “sistema Maisel”): i genitori di Miriam, Abe (Tony Shalhoub) e Rose (Marin Hinkle) Weissman, quell’ambizione non l’avevano mai capita e non avevano mai creduto in lei, perché be’, era normale scommettere tutto sull’erede maschio, no? Ma dopo un episodio (per cui Shalhoub andrebbe studiato nelle scuole di recitazione) in cui Abe capisce che il vero genio della famiglia non è il nipotino Ethan, bensì la nipotina Esther (futura luminare della fisica), ora sono lì tra il pubblico esaltato a fare la ola. Lo stesso vale per il marito Joel (Michael Zegen), che all’inizio della serie era incavolato perché la carriera di Midge era iniziata sfottendolo sul palco e grazie a un dono che sognava di avere lui (quello di far ridere), mentre ora è il suo fan numero 1. Aww.
E poi c’è Lenny Bruce (Luke Kirby), capace di strapparti pure le lacrime che non hai nelle primissime scene del finale, quando Susie lo scova in un club ormai distrutto dalla dipendenza e dalle cause legali (il vero Lenny Bruce sarebbe morto l’anno dopo, nel 1966, per overdose), e ancora nell’ultima apparizione del personaggio mesi prima, in un ristorante cinese dove porta a cena Midge. Qui, fingendo di leggere il bigliettino di un biscotto della fortuna, le dà la carica che le serviva per l’ultimo sprint. Giù lacrime, ancora. Intelligentemente, però, non c’è un finale romantico per Midge, o meglio, non nel senso “tradizionale” del termine. I salti temporali agli anni ’80 ci avevano mostrato la rottura tra lei e Susie quando Joel, per difendere l’ex moglie dai legami della sua manager con la mafia, era andato in carcere. Flashforward: nel 2005 Miriam è nel suo lussuosissimo appartamento di Park Avenue, si chiude nella stanza più piccola e colorata, compone un numero sul cordless. Risponde Susie, vestita di un caftano molto marzottiano in una villa a chissà quanti fusi orari di distanza. Attaccano la registrazione di Jeopardy!, lo storico quiz americano (come facevano Mel Brooks e Carl Reiner), e ridono insieme fino a perdere il fiato.
«Spero sia l’inizio di un’ondata di storie sulle donne, raccontate dalle donne, per le donne, per gli uomini, per tutti», ha detto Brosnahan all’Hollywood Reporter US. Io spero semplicemente che sia l’inizio di storie così magnifiche. Grazie Mrs. Maisel, e buonanotte. Per l’ultima volta. Non sto piangendo, no no…