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‘Trainwreck: Woodstock ’99’, ossia quanto stavamo peggio quando ascoltavamo il nu metal

La docu-serie Netflix ricostruisce i tre giorni del festival peggiore di sempre, tra esibizioni più simili a dei sabba, molestie sessuali, sommosse e incendi: cronaca di un disastro annunciato, ma pure del periodo musicalmente più buio degli anni ‘90

Foto: Netflix

C’è un filo invisibile che collega Motel Woodstock – il film del 2009 di Ang Lee che racconta la storia di Elliot Tiber, il ragazzotto diventato un po’ per caso uno degli organizzatori del festival che più di ogni altro ha segnato il secolo scorso – e Trainwreck: Woodstock ’99, docu-serie di tre episodi diretta da Jamie Crawford e uscita su Netflix. Anzi, mi correggo: il filo non è poi così invisibile, e forse è meglio parlare di due fili che tengono insieme due eventi che non potrebbero essere più agli antipodi. Il primo, ovviamente, è Woodstock stesso: una tre giorni di musica nella cornice bucolica delle campagne di Bethel nel 1969; una tre giorni di musica in una ex base militare circondata da filo spinato nel 1999. Il secondo è una parte del titolo del libro di Tiber da cui Motel Woodstock è tratto, Taking Woodstock: A True Story of a Riot, a Concert, and a Life: tre anime del medesimo evento nel 1969; una netta preponderanza della parte riot nel 1999.

Ci sarebbe molto da dire sull’urgenza di voler replicare un qualcosa che di per sé non è replicabile: gli organizzatori ci avevano già provato nel 1994 con esiti disastrosi a livello di conto economico (leggi: il festival non si rivelò la macchina da soldi che avrebbe dovuto essere), e – in occasione di un compleanno importante, dal 22 luglio al 25 luglio 1999 – hanno pensato di imparare dai propri errori, sovvertendo la logica sottostante la manifestazione originaria. Laddove il business non era assolutamente tra i motori dell’immensa macchina di Woodstock, trent’anni dopo s’è trasformato nell’unica ragion d’essere della rassegna, nonostante le (presunte) buone intenzioni dell’organizzatore Michael Lang: rifare il festival per i suoi figli adolescenti e sensibilizzare i giovani sul problema delle armi (ad aprile c’era stato il massacro di Columbine), ricordando loro il valore e il potere della controcultura.

Prezzi esorbitanti, un caldo devastante, assenza di zone ombreggiate, bagli chimici ridotti a uno schifo, acqua contaminata, merda ovunque, una line-up che di controcultura non aveva niente di niente, anzi: rappresentava proprio la cultura imperante di fine ’90. Korn, Kid Rock, Limp Bizkit, Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers, Offspring eccetera eccetera: fatta esclusione per gli ultimi due nomi e pochi altri, gli esponenti principali del nu metal erano tutti presenti e pronti a raccogliere i cocci di ciò che rimaneva degli ultimi anni del XX secolo. Residui del Seattle sound, estremizzazione dell’hardcore melodico californiano, trashcore, crossover: probabilmente uno dei punti più bassi della nostra formazione musicale prima che il garage rock ne risollevasse le sorti, band celoduriste da confraternite americane che non inneggiavano a nulla se non a spaccare ogni cosa capitasse sottomano e a «essere sempre quel pappone che vedo nelle mie fantasie».

«Avete problemi con le ragazze? Coi genitori? Con il vostro capo? Con il vostro lavoro? Ora voglio che prendiate tutte queste energie negative… e le facciate uscire dal vostro corpo!». Fred Durst non era certo un fine esegeta, ma se inciti una massa già fuori controllo ad andare oltre, e nel farlo provi un piacere al limite del perverso, il confine tra uomo e scimmia diventa alquanto labile. Non è affatto una novità che la musica sia uno degli specchi della società corrente; il problema è che, all’epoca, il clima intellettuale era uno strano mischione dominato da ansie e inquietudini relative al nuovo millennio; teenager armati che sparavano a raffica sui coetanei; politici sporcaccioni le cui fellatio occupavano le copertine dei giornali; albori di terrorismo fin troppo spesso ignorati; guerre e bombardamenti che sembravano avvalorare ancora una volta l’American supremacy.

Nello sbando del momento, allestire un festival con il solo scopo di fare profitti – il che è sacrosanto, sia chiaro, a patto che ciò non vada a detrimento della sicurezza, di un minimo sindacale di pulizia e di prezzi  accessibili, quantomeno per l’acqua – chiamando a suonare i maggiori rappresentanti del nu metal, rientra tra le peggiori idee che Michael Lang e soci potessero avere. L’incazzo per un evento organizzato con i piedi in una location che era una distesa di cemento si somma all’incazzo che Durst, Davis, Kid Rock e compagnia cantante richiedono venga manifestato dal pubblico: «Fuck you, I won’t do what you tell me», da accusa nei confronti del razzismo e delle barbarie commesse dalla polizia, diviene il grido di battaglia che giustifica stupri, violenze, incendi, distruzione.

Fred Durst durante l’esibizione dei Limp Bizkit, Foto: Netflix

Il clamore dei fan è peggio di una droga, e chiunque sia su un palco dev’essere consapevole dell’influenza che esercita: lo sapeva il frontman dei Limp Bizkit; lo sapeva Kid Rock quando «ha chiesto che il pubblico gettasse sullo stage principale bottiglie di plastica»; lo sapeva Anthony Kiedis quando, di fronte a duecentomila e passa persone munite di accendini e candele (!), ha creduto che intonare Fire di Jimi Hendrix fosse un’ottima trovata. Le responsabilità vanno equamente ripartite, e lo sfacelo di Woodstock ’99 è da dividere tra organizzatori, artisti e astanti. I primi per aver sottovalutato la line-up (pare che Lang non conoscesse né i Korn, né i Limp Bizkit); per aver ingaggiato per la security ragazzi senza nessuna formazione professionale, pagati cinquecento dollari per tre giorni; per non aver esercitato alcun controllo sulla politica dei prezzi applicati dai singoli vendor; per aver permesso che nell’hangar dove si tenevano i rave post-concerto migliaia di ragazzi e ragazze, ubriachissimi e fattissimi, scopassero ovunque.

I secondi, per non aver saputo letteralmente «read the room» e non essere stati capaci di contenere la follia dilagante, fomentandola ulteriormente e dimostrando una totale incoscienza. I terzi, per aver ricordato a chiunque gli apici di scemenza, menefreghismo, inciviltà e disumanità che siamo in grado di toccare se istigati da un manipolo di idioti. Qualcuno ha avanzato una metafora ambiziosa: la tre giorni di Woodstock ’99 ricorda molto Il signore delle mosche di William Golding – un paragone che per certi versi sta sicuramente in piedi, ma che sul finale di Trainwreck risulta fin troppo lusinghiero. «L’uomo produce il male come le api producono il miele»: correva l’anno 1952 e la frase aveva un senso; ripeterla nel 1999 – con l’aggravante del nu metal in sottofondo – significa presumibilmente che l’evoluzionismo non abitava nella contea di Oneida.

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