Attenzione: il pezzo contiene spoiler
“E se ci fosse un’altra storia? E se qualcosa fosse rimasto intatto? Questa vita, questa perdita, e se fosse soltanto una lunga storia che prosegue all’infinito fino a risolversi da sola? Non sarebbe una storia che vale la pena raccontare? Non sarebbe una storia che vale la pena ascoltare?”
Queste sono le parole che Amelia Hays rivolge al marito Wayne Hays (Mahershala Ali)… più o meno. La scrittrice ora è solo una creazione dell’immaginazione del vecchio detective, ma gli fornisce il pezzo finale del puzzle sulla ragazza scomparsa che lui ha cercato per metà della sua vita. È più di una semplice voce nella sua testa. È una dichiarazione di intenti della terza stagione di True Detective. Non importa quanto si cerchi di chiudere il cerchio – o addirittura ci si riesca – solo il tempo può portare una storia alla sua conclusione.
Scritto dal creatore/showrunner Nic Pizzolatto e diretto da Daniel Sackheim, il finale di stagione Now Am Found è l’esperimento più audace e riuscito dello show. Da un lato si presenta come una sfida a ogni podcast e subreddit là fuori: “Volete delle risposte? Le avrete”, detto chiaro e tondo come la falsa lettera del suicidio di Tom Purcell.
Come Wayne scopre nel modo più duro quando viene portato per un lungo viaggio nel deserto negli anni ’90, il ricco e potente magnate del pollame Edward Hoyt è stato coinvolto nella scomparsa di Julie Purcell, almeno marginalmente. Interpretato dal grande Michael Rooker, che forse ha la voce da ubriaco più convincente di qualsiasi attore di oggi, il milionario affronta con disinvoltura il poliziotto sull’assassinio del suo guru della sicurezza Harris James. Minaccia la famiglia del detective se l’indagine dovesse continuare, ma sembra davvero perplesso dall’ipotesi di Hays su quello che è accaduto alla ragazza.
E per una buona ragione. Nel 2015 Wayne e il suo vecchio partner Roland West rintracciano finalmente Junius Watts, l’uomo con un occhio solo legato al caso per decenni. Secondo lui, Julie non fu affatto molestata da una cabala di ricchi criminali sessuali, ma invece rapita da Isabel Hoyt, la figlia adulta schizofrenica di Andrew, che credeva che la ragazza fosse sua figlia. Will Purcell fu ucciso per caso durante la lotta e sua sorella trascorse anni nel complesso di Hoyt, drogata e più o meno felice, finché il custode “Mr. June” non l’ha aiutata a fuggire. Gli ex poliziotti non uccidono né arrestano il complice pentito, lasciando decidere a lui se convivere con il suo senso di colpa o suicidarsi.
Wayne e Roland scoprono che, dopo la sua fuga, Julie è diventata “Mary July”, la fuggitiva fuori di testa che l’ultima volta ha sentito chiamare la hotline e accidentalmente accusare il suo vero padre nella sua confusione mentale. Si è trasferita in un convento, dove si è presa cura dei bambini bisognosi, fino alla morte per AIDS. O così le monache e la lapide nel cimitero della chiesa vorebbero far credere.
Ma con l’aiuto del libro di Amelia sul caso – che sottolinea quanto un ragazzo di nome Mike Ardoin avesse preso male la scomparsa della giovane donna – e la “visita” della scrittrice stessa, Wayne si rende conto che “Mary July” è ancora viva. Mike era il giardiniere del convento e ha messo su famiglia con lei. E vissero più o meno felici e contenti.
Wayne vuole disperatamente chiudere il caso una volta per tutte, e non solo per Julie. Una serie di flashback rivelano quanto il mistero dei Purcell fosse sempre stato parte del suo rapporto con Amelia, nel bene e nel male: nel 1980 accettò volontariamente un demansionamento anziché mettersi contro di lei quando sparlò delle indagini in un articolo per il giornale locale. Le ricerche parallele per la verità sono state da sempre una linea guida nel loro matrimonio.
Quindi il vecchio Hays va a casa della donna scomparsa e, a causa della sua condizione medica, dimentica immediatamente il perché. Tutto quello che può fare è chiedere aiuto all’estraneo più vicino (Julie). E in un capovolgimento emozionante nella sua elegante semplicità, lei lo aiuta a ritrovare se stesso.
Tutto finisce con una riunione tra Wayne, suo figlio e sua nuora, la figlia che non conosce e Roland. (Stephen Dorff è il bomber dell’episodio per la fantastica sequenza del 1980 in cui decide di buttarsi in una rissa con alcuni motociclisti per sfogarsi e poi viene salvato dal baratro da un adorabile cane randagio). Ma di lì a poco “Purple” Hays si ritrova perso di nuovo, torna alla notte in cui ha chiesto ad Amelia di sposarlo e poi scompare nella giungla del Vietnam nella scena finale della stagione.
Ora che Wayne ha dimenticato la risposta, il mistero verrà mai risolto? Ci sono diversi motivi per credere di sì. Suo figlio Henry (un sottovalutato Ray Fisher) tiene l’indirizzo di Julie anziché buttarlo via, segno che pensa che il suo vecchio potrebbe essere stato coinvolto in qualcosa. Forse avrebbe potuto rivolgersi a Elisa, la documentarista con cui aveva avuto una relazione, o lei avrebbe potuto scoprirlo da sola. (Anche se l’idea della donna che il caso sia collegato al serial killer della prima stagione di True Detective è fuorviante per lei e per chiunque nel pubblico sperasse in un cameo di Matthew McConaughey). O forse Hays emergerà dalla giungla dei suoi ricordi in tempo per ricordare tutto da solo, con o senza l’aiuto del suo vecchio partner.
Ma indipendentemente dal fatto che l’indagine venga mai risolta, la terza stagione sicuramente ha avuto una conclusione positiva. Pur muovendosi abilmente tra le linee temporali e creando un senso irremovibile di terrore e una calda sensazione di empatia, offre una spiegazione il più possibile chiara del caso e lascia comunque aperto il finale – e il concetto stesso di conclusioni. Non è stata la stagione più ostentata di True Detective, o la più spaventosa, o la più incredibile. È stata semplicemente la migliore.