Un cuore spezzato in due, questo ricordo: e il filo di un telefono che, teso, tagliava in parti esattamente, ossessivamente, uguali l’inquadratura. E gli alberi, tanti alberi. C’è qualcosa nel bosco: e lo dobbiamo trovare. Eravamo stati tirati su a dosi massicce di Pippo Baudo, cercando di indovinare quanti fagioli c’erano nel vaso di Raffaella e il massimo della perversione fino ad allora era stato rappresentato dalle scaramucce da petrolieri di Dallas o dalla Bustarella di Andenna che guardavamo di nascosto. Poi arrivò un uomo che parlava con un registratore, un altro con un braccio solo, un nano, una donna con una benda sull’occhio: e una ragazza, avvolta nella plastica. Arrivò l’oscurità: e, ventenni a caccia di emozioni e linguaggi nuovi, ci scoprimmo impreparati. E infinitamente grati. Nulla è stato più uguale dopo Twin Peaks: e nemmeno avrebbe potuto esserlo.
Ne siamo certi ora: 32 anni dopo. Il “film a puntate” di David Lynch inventa di per se stesso il concetto moderno di serialità: divide, come quel cuore, come quell’inquadratura, in due parti il prima e il dopo della fiction televisiva. Si abbatte come una mannaia sull’esistente e, forte del suo stato di unicum, influenzerà (infetterà?) molto (un nome solo? Cosa ne dite della prima stagione di True Detective?) quello che verrà dopo. Non solo: questa è anche la serie che ridefinisce da capo la dimensione di attesa. Perché in Italia Twin Peaks, arrivando mesi dopo la fortunatissima messa in onda americana, sbarcò già avvolto dai crismi di leggenda ambigua, accompagnato dal suo spiazzante alone di mistero, dalla fama di oggetto indecifrabile, di meccanismo perfetto e insieme pericoloso. E anche perché, di puntata in puntata, scivolavi un po’ di più nel mondo imperfetto, nel labirinto molle, di un autore, riconoscente “per i segreti e misteri”, che non amava le risposte complete, ma solo quelle parziali, dentro le quali potesse scovare un’altra domanda e un’altra ancora. Figlie forse di quella più importante: chi ha ucciso Laura Palmer?
Già: 30 anni fa se lo chiesero tutti. Permettendo a Twin Peaks non solo di insinuarsi con i suoi segreti nelle nostre vite, rivoluzionando nel medesimo tempo la sintassi della fiction creando un culto immediato e duraturo: ma anche di dare un senso a parole e termini che un senso lo avrebbero avuto solo molto dopo. Spoilerare, ad esempio. Verbo che in quell’alba inquieta dell’ultimo decennio del millennio non figurava nel nostro vocabolario: ma che al tempo di Twin Peaks rimbalzò, con altre forme e altri suffissi, dai giornali alle aule dell’università, dalle tv ai bar. Chi ha ucciso Laura Palmer? Lo domandò anche un big della finanza ai produttori della serie ma specificò che non voleva saperlo lui: ma il presidente Bush, a cui lo aveva chiesto Gorbaciov… Ci furono pessime fughe in avanti, anche in Italia: la peggiore però avvenne in Germania, dove una tv, prima che la rivale Rtl mandasse in onda Twin Peaks, rivelò il nome dell’assassino. Risultato? Serie sospesa per ascolti troppo bassi…
Lynch, all’epoca, si era già ritagliato un posto nel nostro cuore con The Elephant Man, ma era stato Velluto blu, che non poco aveva diviso, a mettere in evidenza il carattere disturbante e innovativo del suo cinema: poi, appena prima di Twin Peaks, ecco la consacrazione di Cannes, dove Bernardo Bertolucci gli consegnò la Palma d’oro per Cuore selvaggio. Altro oggetto cinematografico estremo e pop. E in un certo senso già anticipatore in parte delle atmosfere di Twin Peaks: penso alla sequenza cult dell’incidente, con Sherilyn Fenn (poi sexy Audrey Horne nella serie) che, con la morte già addosso, va incontro ai due protagonisti in cerca della sua borsetta… Ma è con quella serie uguale a nient’altro che questo geniaccio irregolare e inclassificabile diventa patrimonio dell’umanità. Lynch ci riesce perché (con la complicità di Mark Frost, ideatore con lui dello show) cambia, da sovversivo qual è, le regole del gioco: e inventa un genere a cui nemmeno si può dare un nome, dove il mélo abbraccia l’horror ipnotico, il kitsch tende la mano al grottesco, il thriller inquietante sfocia nel fantastico.
Sì certo, l’ispirazione arriva probabilmente da un classico del falso perbenismo come I peccati di Peyton Place, ma è l’intera grammatica stilistica televisiva quella che il regista di Una storia vera riscrive da capo. Come una soap opera che si è fatta di acidi, Twin Peaks: una saga allucinata che rivela quanto il proibito sia vicino a noi, forse dietro la nostra stessa porta. Una suggestione amplificata dall’ambientazione, quel luogo non luogo che fa della serie un’enclave all’interno di una extraterritorialità da prime time, dalla musica eterna e riconoscibilissima di Angelo Badalamenti, il collaboratore di una vita, da personaggi inediti a partire dall’investigatore fan della torta di mele, l’agente Cooper interpretato da quel Kyle MacLachlan, all’epoca attore feticcio di Lynch, che l’altro giorno ha organizzato una reunion del cast con un party su Instagram. Ennesimo segnale della “persistenza” di Twin Peaks nelle nostre (e nelle loro) vite: che non solo si è sdoppiato in una seconda stagione e in un film (Fuoco cammina con me) ma che, non prima di avere influenzato anche Mullholland Drive (il miglior Lynch del terzo millennio), è tornato a farsi vivo in Twin Peaks: The missing pieces per poi rinascere in una nuova, acclamata, serie, tre anni fa. Prova che è impossibile liberarsi di Twin Peaks: soprattutto per il suo autore. Ma sarebbe inutile chiedergliene conto: «Se ne puoi parlare non stai facendo del cinema».