Nella nuova miniserie Hulu Under the Bridge (da noi su Disney+ dal 10 luglio, ndt), Riley Keough interpreta Rebecca Godfrey, una scrittrice che inizia a scrivere un saggio sull’omicidio di Reena Virk, una ragazza di 14 anni che viveva nello stesso sobborgo canadese in cui Rebecca è cresciuta. In un episodio, il padre di Rebecca legge la prima bozza del manoscritto e si chiede perché la figlia abbia scelto di concentrarsi così tanto su uno degli assassini accusati, Warren Glowatski, piuttosto che sulla presunta vittima dell’uomo.
Rebecca, che ha avuto difficoltà a capire le proprie azioni e intenzioni da quando è tornata a casa, nella Columbia Britannica, ci pensa un attimo. Poi dice: “Perché sto sfidando il lettore a vedere che la cosa peggiore che ha fatto non è ciò che è. Le persone possono fare cose orribili, ma questo non le rende intrinsecamente malvagie. E non so quale sia l’alternativa, se non quella di scrivere una storia triste su una ragazza che non conoscevo”.
C’è stata una vera Rebecca Godfrey, qui interpretata da Riley Keough. E una vera Reena Virk (Vritika Gupta), un vero Warren Glowatski (Javon Walton), eccetera. Il libro di Godfrey, uscito nel 2005 e intitolato anch’esso Under the Bridge (in italiano è stato tradotto con La ragazza che doveva morire, ndt), ha vinto premi e riconoscimenti per il livello di approfondimento che l’autrice è stata in grado di offrire riguardo ai ragazzi che hanno bullizzato e poi picchiato selvaggiamente Reena fino a farla morire in un burrone nel 1997, nonché per il ritratto che alla fine ha dipinto di Reena.
La versione televisiva in otto episodi, adattata da Quinn Shephard, cerca di coprire l’intera storia. Cambia spesso il punto di vista, passando da quello di Reena alla crudele figlia adottiva Josephine Bell (Chloe Guidry) e alla sua migliore amica Kelly (Izzy G.), fino a Warren, alla madre di Reena, Suman (Archie Panjabi), e al padre Manjit (Ezra Farouke), alla poliziotta locale Cam Bentland (Lily Gladstone) e, infine, alla stessa Rebecca. Ma nel tentativo di mostrare la storia attraverso gli occhi di tutti, Shephard e i suoi collaboratori alla fine faticano a trovare la stessa profondità per cui la vera Rebecca Godfrey è stata tanto celebrata.
Il problema principale, infatti, è la versione “fictionalizzata” di Rebecca che Keough interpreta, così come il suo rapporto con Cam, che conosce fin dall’infanzia e che, come Rebecca, è ancora in lutto per la morte di Gabe, il fratello di Rebecca, avvenuta quando entrambe erano adolescenti. Mentre nel libro la stessa Godfrey resta una figura relativamente secondaria, poiché l’autrice ha preferito scrivere dei ragazzi e delle loro famiglie, nella serie è il personaggio principale. E alle sue interazioni con Cam (non una persona specifica del caso reale ma un personaggio ispirato a molte figure diverse) viene dato un peso narrativo almeno pari, se non superiore, al legame che sviluppa con Warren durante le ricerche sul libro.
Da un lato, è ovvio che una serie tv voglia valorizzare due attrici reduci da ruoli acclamati – Keough è stata nominata agli Emmy per Daisy Jones & The Six, Gladstone agli Oscar per Killers of the Flower Moon – rispetto ai tanti giovani interpreti meno famosi o celebrati (anche se Javon Walton è un membro indimenticabile del cast di Euphoria, nei panni dello spacciatore minorenne Ashtray). E quando Keough e Gladstone sono sullo schermo, da sole o insieme, si capisce il perché di questa scelta. Le due interpreti, e Gladstone in particolare, sono così carismatiche che sembrano il punto più ovvio su cui incentrare la storia, anche se Cam Bentland nella realtà non esiste, e anche se la vera Godfrey non era particolarmente interessata ad assicurarsi che lei facesse parte della narrazione.
Ma soffermarsi su chi racconta la storia piuttosto che sui suoi soggetti rischia di compromettere la storia stessa. È successo un paio di anni fa con Inventing Anna (su Netflix), in cui Shonda Rhimes sembrava meno interessata alla truffatrice Anna Delvey e più alla reporter (anche lei molto romanzata) che ha contribuito a renderla famosa. Il risultato è che la stessa Delvey ha finito per restare opaca e sfuggente, rendendo difficile capire perché la reporter o Rhimes la trovassero così affascinante.
Lo stesso purtroppo accade qui. Nonostante gli otto episodi a disposizione, Quinn Shephard e compagnia riescono solo a volte ad andare oltre la superficie, per ciò che riguarda i personaggi di Josephine, Kelly, Warren e gli altri adolescenti. Alcuni di loro sanno esattamente perché hanno attaccato Reena, altri lo capiscono a malapena. Ma la serie non riesce a elevare il primo gruppo al di sopra della pura sociopatia e non riesce mai a sciogliere del tutto il nodo in cui si è impigliato il secondo. Reena (che appare spesso nei flashback, anche dopo l’omicidio) se la cava un po’ meglio, così come i membri della sua famiglia, tra cui Anoop Desai nel ruolo dello zio, l’unico parente che ha continuato a cercare di capirla quando lei ha iniziato a frequentare la banda di ragazze cattive capitanata da Josephine e ad ascoltare i CD di Biggie (*). Ma nessuno di loro risulta tridimensionale come dovrebbe, date le circostanze.
(*) Alcuni dei dettagli più mirati riguardano il modo in cui questi ragazzi bianchi di periferia si sono ispirati ai rapper e ai criminali afroamericani – Josephine soprannomina la sua gang CMC, ovvero “Crip Mafia Cartel” – anche se hanno sempre trattato Reena e la sua amica nera Dusty (Aiyana Goodfellow) come cittadine di Serie B.
Ma nel complesso, Under the Bridge è stranamente più forte quando si allontana dagli eventi reali del caso. E l’enorme quantità di tempo trascorso con i personaggi meno sviluppati può far sì che l’esperienza di visione risulti a volte più punitiva che rivelatrice. Un film non avrebbe potuto rendere giustizia alla storia, ma questa serie sembra decisamente andare troppo per le lunghe.
Rebecca Godfrey è morta nel 2022, poco prima dell’inizio delle riprese della serie, ma dopo aver lavorato con Shephard e altri (tra cui lo showrunner Samir Mehta) per contribuire al suo sviluppo. Quindi sicuramente sapeva che questa era la direzione del progetto. Under the Bridge non è certo il primo adattamento che si discosta in modo significativo dal materiale di partenza, né sarà l’ultimo. In molti casi, infatti, sono necessari grandi cambiamenti affinché una storia concepita per un mezzo di comunicazione possa funzionare in un altro. In questo caso, però, il “trasloco” sullo schermo fornisce ruoli forti a una coppia di attrice in ascesa, ma rende un cattivo servizio alla storia che Godfrey aveva raccontato.