Questa non è una recensione di Unorthodox, la miniserie creata da Anna Winger e Alexa Karolinski – che trae ispirazione dall’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots – arrivata su Netflix lo scorso 26 marzo. O, meglio, lo è solo in parte. Unorthodox costituisce infatti il punto d’arrivo dell’incredibile percorso sviluppato appunto da Netflix. Che, prima col documentario One of Us (realizzato da Heidi Ewing e Rachel Grady nel 2017) e poi con la serie israeliana Shtisel (acquistata dalla tv israeliana e dall’imminente terza stagione prodotta “in proprio”), ci ha traghettati all’interno di una delle comunità religiose più impenetrabili al mondo, quella degli ebrei chassidici o ultra-ortodossi.
Nessun amante di cinema o serie tv è arrivato sin qui digiuno di ebraismo, sia chiaro. Da Billy Wilder a Woody Allen, passando per Mel Brooks, Joel ed Ethan Coen, fino ad arrivare a Amy Sherman-Palladino e Daniel Palladino con la scoppiettante (e fantastica) signora Maisel, ci siamo più volte misurati con l’umorismo ebraico, con il witz che in yiddish equivale alla storiella colma di autoironia – sottile e a volte nonsense – che spesso si risolve in un insegnamento che non vuole rivelare nulla, in una specie di buffo lamento. Il witz rappresenta in realtà la continua affermazione della vita di fronte al male del mondo, una tradizione che trae origine dalla Bibbia e non ha eguali in nessun’altra cultura: abbiamo riso, abbiamo abusato di citazionismo, abbiamo forse pensato che l’ebraismo risiedesse tutto lì, in storielle divertenti e sottili per cervelli fini, mescolate a dubbi amletici sulla volontà di Dio e all’onnipresenza del tanto temuto e venerato rabbino.
L’ebraismo, nella sua immensa e singolare complessità, abbraccia in realtà sia quella corrente più laica e progressista, sia la corrente ultra-ortodossa chassidica, nata grazie al taumaturgo e kabbalista Ba’al Shem Tov nell’Europa dell’Est del Settecento per promuovere la popolarizzazione della fede nelle comunità povere e illetterate, proponendo un modello di religiosità più intensa e meno intellettualistica. La corrente ebbe sempre più successo e presto si diffuse in Europa, Israele, Canada, Stati Uniti e Australia: fu l’Olocausto a decimare gli ebrei chassidici, e i superstiti – convinti che per ricostruire ciò che la seconda guerra mondiale aveva distrutto occorresse proteggersi attraverso la costituzione di una comunità chiusa e severa – si ristabilirono a New York, nel distretto di Brooklyn.
È qui che sono ambientate le storie raccontate tanto in Unorthodox, quanto in One of Us. In un sistema basato su un collaudato meccanismo di matrimoni combinati estremamente prolifici, che proibisce la socializzazione tra uomini e donne non facenti parte della stessa famiglia, la lettura di libri laici, la visione di film, l’accesso a internet e persino alcune parole – “dinosauro”, “evoluzionismo”, “palestra” – censurate e di cui non si conosce il significato, alcuni membri cominciano a dubitare dell’ortodossia e a porsi dei quesiti che non trovano risposta nelle regole da osservare. I loro nomi sono Esty, Etty, Ari, Luzer: le donne dopo il matrimonio hanno dovuto sacrificare i capelli, che portano rasati coperti da una parrucca; gli uomini indossano il lungo rekel, hanno in testa gli ingombranti shtreimel e sfoggiano gli immancabili payot, i lunghi boccoli lasciati crescere davanti alle orecchie in accordo con un passaggio del Levitico. Abitano a South Williamsburg, a un isolato da uno dei quartieri più cool della Grande Mela, ma è come se fossero distanti da esso migliaia di chilometri e anni luce, incastrati in una lunga serie di leggi, consuetudini e dettami che preservano la loro collettività. La Esty (Shira Haas) di Unorthodox decide di fuggire a Berlino e lì viene inseguita dal marito e dal cugino col compito di riportarla a casa, ché come sostiene il rabbino «un ebreo, anche se ha trasgredito, resta un ebreo: non possiamo lasciare che la nostra gente si smarrisca». Intanto scoprirà il significato della libertà, dell’amicizia, (probabilmente) dell’amore e del piacere di mettersi il rossetto, profeticamente a marchio Epiphany. Noi ci ritroviamo a tifare per lei – e come non potremmo? –, ma allo stesso tempo vorremmo porle mille domande, vorremmo chiederle com’era davvero, stare a Williamsburg imprigionata nella sola verità da lei conosciuta, vorremmo indagare ogni dettaglio della sua quotidianità, vorremmo cercare di capire quest’universo così lontano da noi, e proprio per tale motivo così seducente. C’è un grosso parallelismo con la Etty di One of Us, protagonista di un’evasione simile, sebbene assai meno romanzata e decisamente più complicata: per entrambe, però, il momento chiave di passaggio è la rinuncia alla parrucca e lo svelamento “pubblico” dei cortissimi capelli, che segna il principio della loro rinascita esteriore, oltre che interiore.
Unorthodox ha sì alcune pecche, ma tra queste non figurano né i flashback della vita precedente di Esty, con i rituali e cerimoniali religiosi chassidici e le lezioni di «fisica elementare» (ossia di sesso), né la prova di Shira Haas, che farebbe mangiare la polvere a centinaia d’attrici più navigate con la sua presenza magnetica e lo sguardo in grado di mangiare la macchina da presa pure con un’impercettibile alzata di sopracciglia. Shira Haas si era già fatta notare in Shtisel, la serie israeliana creata da Ori Elon e Yehonatan Indursky e ambientata nel quartiere di Geula a Gerusalemme, popolato da una maggioranza di ebrei ultra-ortodossi. Shtisel è un piccolo gioiello nascosto tra i mille titoli di Netflix, nonché il giusto contraltare di Unorthodox e One of Us: le vicende di Shulem Shtisel, rabbino e patriarca dell’omonima famiglia, mirano infatti a demolire gli stereotipi legati al chassidismo, descrivendo con garbo, intelligenza e ironia le contraddizioni, i contrasti, le tentazioni e le piccole trasgressioni che animano i vari personaggi. Si ride e si piange in egual misura in Shtisel, grazie a un cast eccezionale e a una sceneggiatura in grado di aprire una visuale privilegiata sull’ortodossia ebraica e su determinate sfumature che non lasciano indifferenti: la forza della comunità; l’importanza di una vita all’interno della società e al servizio di essa; il rispetto e la stima per gli anziani; l’assenza di dogmi in cui credere bilanciata dalla necessità di agire in conformità alle norme comportamentali contenute nella Torah, le mitzvòt.
A noi spettatori non viene chiesto di giudicare, assolvere o condannare, bensì di comprendere. Unorthodox, One of Us e Shtisel sono le tre facce di un’unica medaglia, inscindibile dagli eventi storici che hanno condizionato il destino degli ebrei dalla notte dei tempi, e fino a oggi sconosciuta ai più. Bollare le produzioni come la prova concreta e contemporanea del fondamentalismo religioso ebraico sarebbe sbagliato, oltre che riduttivo, e non riuscirebbe affatto a chiarire la strana e inspiegabile fascinazione provata nei confronti dei diversi protagonisti – che si sforzano costantemente di mantenere in equilibrio i propri doveri, l’amore per loro stessi e per gli altri, la realizzazione di una minuscola porzione di felicità – e del microcosmo all’interno del quale si muovono. Un microcosmo agli antipodi rispetto al nostro, certo, dove con molta probabilità non vorremmo mai risiedere nemmeno per un breve periodo di prova. Ma anche un microcosmo che – fra le innumerevoli pieghe delle sue incoerenze e paradossi, se osservato senza troppi pregiudizi di sorta – contro ogni previsione e in maniera inaspettata ha parecchio da insegnarci. D’altronde, «tutte le cose ebraiche sono disponibili per tutti», scriveva Amos Oz. Salvo poi aggiungere: «O meglio, per chiunque sia così pazzo da volerle». Sarà stato serio, o quello era solo un witz?