Due minuti prima di vedere (in esclusiva mondiale) il trailer di Elvis (uscirà quest’anno nelle sale italiane), mentre aspettavo nella saletta virtuale pre-diretta, pensavo che solo Baz Luhrmann avrebbe potuto centrare davvero un biopic sul re de rock’n’roll in tutta la sua gloria e in tutto il suo dramma. Luhrmann è l’auteur che ha reso pop Shakespeare prima che diventasse figo attualizzarlo e lanciato DiCaprio ben prima che affondasse con il Titanic, che ha ridefinito la forma musical da cinema come una sontuosissima playlist che passa da Marilyn a Madonna (e creato il ruolo più immortale per la più divina di tutte: Nicole Kidman), che ha lanciato un’estetica alternativa e insieme postmoderna e una narrazione il cui potere sta nella capacità di portare nuove prospettive. Ecco, pensavo che solo Baz, pioniere della pop culture in forma di film, sarebbe riuscito a mettere insieme tutti gli aspetti di Elvis: icona, superstar della musica e tragedia americana. E, almeno dal trailer, pare proprio sia così.
«Questo film è interessante per il mio background, in termini di storytelling», attacca il regista. «Anche i cantori di storie, senza scomodare Shakespeare, non scrivevano biografie: prendevano un’esistenza e la usavano come tela per esplorare idee ben più grandi. Pensiamo ad Amadeus (il biopic del 1984 di Miloš Forman, nda), per esempio: non parla di Mozart, ma dell’invidia».
Ovviamente Baz è un appassionato di Elvis: «Ci sono icone musicali che sono state molto importanti per me, da giovane ero un fan, ma non credo che quella fosse la ragione per cui volevo fare un film su di lui. La verità è che, in questa realtà contemporanea, la vita di Elvis è la tela perfetta su cui esplorare l’America negli anni ’50, ’60 e ’70. 42 anni sono un tempo breve, è vero, in cui però sono racchiuse tre esistenze incredibili, culturalmente e socialmente al centro di quel periodo». L’altro motivo per occuparsi di questa storia, confessa Luhrmann, è lui: «Il Colonnello Tom Parker», ovvero il manager di Elvis, che nel film è interpretato da Tom Hanks.
Praticamente il Tom nazionale esce dalla sua comfort zone di più amato dagli States e impersona una sorta di “cattivo”: «Credo che Tom lo cercasse, ci si è proprio buttato a capofitto, ma non spoilero niente perché il trailer si apre con lui che afferma: “Ci sono persone che sostengono che sia il villain di questa storia”, e poi racconta tutto, ma non dice mai: “Hanno ragione”». Sostanzialmente difende la versione del suo personaggio: «È un meccanismo narrativo, perché in realtà quando parliamo di qualcuno realmente esistito non c’è mai una versione univoca. Come anche nella vita: se hai conosciuto Amadeus o Elvis è il tuo ricordo, la tua versione della loro esistenza. Vale lo stesso per Il grande Gatsby e Nick Carraway».
La responsabilità di dare l’anima (poi capirete) a Elvis è di Austin Butler: «Ci sono stati tanti motivi che mi hanno portato qui, ma su tutti la possibilità di esplorare l’umanità di qualcuno che è diventato la cartina di tornasole di una società: Elvis è una leggenda, ha raggiunto quasi uno stato super umano. Avevo 27 anni quando mi hanno scelto e ora ne ho 30, l’ho esplorato per tre anni per trovare l’essere umano e ho lavorato con uno dei migliori registi di sempre. È stata davvero una gioia, potrei farlo per il resto della mia vita».
Nel film Austin si prende anche l’onere di cantare: «Entrare nei suoi panni era una roba enorme. Quando è iniziato tutto volevo trovare un sound identico al suo, questo era il mio obiettivo, sentendo una registrazione mia e una sua non avresti dovuto riconoscere la differenza», ricorda l’attore. «E l’ho pensata così per diverso tempo. Poi è arrivata la paura di non farcela, avevo un fuoco dentro che mi portava a lavorare, lavorare. Per un anno prima di girare ho fatto voice coaching sei o sette volte la settimana e passato ore con diversi esperti per cercare il registro, l’accento, l’inflessione, tutto». Alla fine però quelle non erano gli aspetti essenziali: «Puoi impersonare qualcuno, ma trovare l’umanità e la vita, la passione e il cuore è un’altra cosa. Ho dovuto liberarmi da tutti quegli elementi e attraversare la sua vita nel modo più vero possibile».
Luhrmann e Butler sono stati a Graceland e a Nashville nello studio di registrazione di Elvis: «È stato un dono incredibile la possibilità di stare a contatto con i cantanti gospel più incredibili di sempre: avevo le lacrime che mi scendevano, i brividi, è stata un’esperienza meravigliosa», spiega Austin.
E c’è una precisazione tecnica che fa il regista, essenziale per chi ascolta: «La cosa interessante e unica nel mondo di Elvis è che tutte le tracce prima degli anni ’60 non si potevano usare in un film, perché erano registrate in mono e avevano questa sensazione nostalgica. Puoi riprodurle, ma parliamo della fotocopia di una performance che è già su disco. Il “vecchio” Elvis poi ha già avuto tanti imitatori e tributi, il cui scopo è quello di avvicinarsi il più possibile al suo modo. A Memphis fare l’imitatore di Elvis è una specie di disciplina sportiva, e lo rispetto molto, ma è un altro pianeta. Come diceva Austin, non c’entra niente con l’entrare nell’anima di un essere umano».
Così è stato trovato un linguaggio musicale inusuale per il film: Austin avrebbe cantato tutte le canzoni del giovane Elvis, ma dalla metà dagli anni ’60 in poi avrebbero mescolato la sua voce con quella vera della star. «Quando canta In the Ghetto è Elvis», precisa Baz. «Mentre andavamo a fondo nella ricerca (e di questo devo ringraziare Graceland e tutti coloro che da outsider ci hanno permesso di entrare nel suo mondo), ci rendevamo conto che i dischi più “giovani” di Elvis erano fantastici, ma in qualche modo sempre nostalgici. Ci sono però alcune registrazioni dove sullo sfondo puoi sentire Elvis sul palco: siamo negli anni ’50 e, se consideriamo il modo in cui canta e le descrizioni delle persone che stavano lì, Elvis era il punk originale. Non sono pezzi malinconici, non sono educati, sono selvaggiamente provocatori. A inizio anni ’50 parlavano dei suoi brani definendoli “rivoltosi”». Ma c’è di più: «Un musicista ha detto: “Quando ho visto Elvis per la prima volta negli anni ’50, non potevo capacitarmi di quanto fosse bizzarro nell’aspetto e di quanto fosse sconvolgente”. A questo punto ci siamo chiesti: come traduciamo questi concetti per un pubblico contemporaneo? Non poteva essere un’imitazione, doveva essere una nostra interpretazione di Elvis, perché tutto quello che abbiamo è filtrato attraverso una tecnologia nostalgica e vecchia. La missione principale di Austin, dal primo minuto in cui ci siamo incontrati, era quella di umanizzare Elvis. Era di mostrare la persona durante il suo incredibile viaggio».