Ammettiamolo: quando Mr. Beast, secondo youtuber con più iscritti al mondo (213 milioni), pubblicò il video $456,000 Squid Game In Real Life! a soli due mesi dall’uscita di Squid Game su Netflix, le mascelle ci caddero un po’. Non tanto per il fatto in sé, d’altronde le azioni spettacolari e la beneficenza randomica ai fini dell’effetto-wow sono il core business di Mr. Beast (uno dei video più recenti s’intitola: Ho costruito 100 pozzi in Africa). Né per aver scoperto che, pensa te, “appena vediamo uno che salta il fosso lo saltiamo anche noi”. In altre parole, sarebbe stato stupefacente che nessuno pensasse di adattare la trama – e le prove – della serie coreana che ha conquistato l’Occidente in qualcosa, come dice Beast, nella vita vera. Quello che non potevamo – o non volevamo – aspettarci è invece ciò che è avvenuto: valanghe di occidentali hanno preso una feroce critica alla società della Corea del Sud, l’hanno rivoltata come un calzino, e hanno cominciato a mostrare i muscoli per essere il migliore di tutti.
Stessa cosa è avvenuta poco più di un anno fa, quando Netflix annunciò l’entrata in produzione di un reality ispirato alla serie firmata da Hwang Dong-hyuk. Amused, buy not surprised. Alla fine, quale miglior modo per ingannare il tempo tra una stagione e l’altra (il prossimo capitolo di Squid Game, confermato, non ha ancora data d’uscita ufficiale) che dare un motivo ai circa 240 milioni di abbonati per ritornare sulla piattaforma, e magari rivedersi, giusto per un ripassino, la prima stagione della serie che ha staccato 111 milioni di spettatori nei primi 25 giorni dal lancio?
Ma non è il tempo delle domande retoriche. Perché Squid Game – La sfida è arrivata oggi su Netflix, e va subito al sodo: ci prenderà alla gola, anzi all’ippocampo, solleticandoci con quel cocktail micidiale di terrore, adrenalina e seduzione che abbiamo conosciuto, amato, detestato due anni fa.
A corredo nessuna backstory, ma un inizio in medias res: 456 concorrenti, un montepremi di 4.560.000 dollari, tutine verdi a righe, scarpe bianche slip-on, un dormitorio incubo di ogni ex boy scout pentito, e un salvadanaio gigantesco calato dal soffitto per accumulare le banconote corrispondenti al valore dei partecipanti via via eliminati (10.000 dollari per ogni concorrente). La bambola gigante di “luce rossa, luce verde” attende per la prima prova: per costruirla sono serviti tre mesi di lavoro, il suo esoscheletro, alto 4,20 metri, è stato realizzato dalla maggiore azienda di stampatori 3D del Regno Unito (le intere riprese si sono svolte in due location in UK) e il suo meccanismo, a differenza di quello della serie, è perfettamente funzionante.
Il gioco comincia, un-due-tre stella, i partecipanti cadono come mele mature. L’effetto-esecuzione è assicurato da un dispositivo nascosto sotto le uniformi e contenente inchiostro nero (dalla produzione ridacchiano: così avrebbe ricordato lo “squid”, il calamaro, del titolo). In sottofondo cominciamo a conoscere i concorrenti: c’è Lorenzo, asset manager italiano, una coppia madre-figlio, poi il presobene palestrato che non ci mette nemmeno due episodi a radunare attorno a sé un crocchio di galletti. Forse memori del personaggio di Oh Il-nam (Oh Yeong-su), il tifo viene subito assegnato a “Doc”, medico in pensione con 18 nipoti, tutti tatuati sul polpaccio in una sorta di albero genealogico (non visibile causa uniforme, però). Profili studiati a tavolino per spuntare tutte le categorie di un ottimo reality?
C’è da dire che, del supporto da casa, ai concorrenti non pare importare molto. Questo è Squid Game, no? Quindi ci saranno le stesse prove che ho studiato a menadito, per cui mi sono segnato tutti i trucchi… nì. Ma di più non è giusto rivelare. Più interessante è mettere in pausa e concedersi la lettura della serie di testimonianze anonime di concorrenti eliminati che, ancora prima della fine della produzione del programma, denunciavano il comportamento crudele e disorganizzato della squadra (attese al freddo e cibo immangiabile, tra le altre). Oppure scorrere il catalogo Netflix e perdersi nei meandri di altri reality, questa volta Made in Korea: Siren – Sopravvivere su un’isola deserta, per esempio, dove sei squadre di sole donne divise per professione (pompieri, polizia, soldati, atlete, stuntman e guardie del corpo) si battono per “sopravvivere” su un’isola deserta piena di tranelli e prove da superare. O The Devil’s Plan, arrivata sulla piattaforma questo settembre ma passata in sordina, dove una serie di “menti brillanti” è chiusa in una casa per risolvere una serie di sfide di ingegno una più “diabolica” dell’altra, create per favorire i giocatori che sapranno fare squadra, e non muro, con gli altri partecipanti.
Sia Siren che The Devil’s Plan evidenziano due aspetti fondamentali, e interconnessi, della società coreana: il focus della collettività non sul singolo in quanto persona, ma come unità con determinate abilità, grazie alle quali potrà contribuire al funzionamento della società; e la costante tensione a uscire dalla massa anonima dei numeri, eccellendo sugli altri e dimostrando di portare con sé un capitale umano maggiore. Spersonalizzanti, ma con premi astronomici per chi dovesse arrivare alla fine: contraddizione coreana e della cultura popolare che esprime, perfettamente realizzata in Squid Game.
Con La sfida, diversamente, ci troviamo di fronte a un prodotto nuovo, che applica criteri di “selezione naturale” occidentali a un substrato culturale diverso. Possiamo immaginare che qualcuno si sia iscritto per divertimento, sfida personale, o ingolosito dal ricco montepremi. Ma non, oltre alle frasi di rito “lo faccio per dare una vita migliore alla mia famiglia”, per rapporti conflittuali di obbedienza e rivalsa nei confronti di un ingranaggio sociale.
Saranno i quindici minuti di fama (come quelli di Mr. Beast) o il poter dire un giorno, ai nipoti, “guarda che io c’ero” (come Mr. Beast). Certo è che, se il successo di Squid Game era stato costruito un blocchetto alla volta, con il K-Beauty prima, il K-Pop a seguire e l’Oscar a Parasite poi, per il “suo” reality vale lo stesso. Solo che le radici sono da ricercarsi nel, ben più volatile, content ipertrofico che invade la rete. E volatile sembra essere il pubblico a cui Squid Game – La sfida si rivolge: complici tempi di regia e montaggio piuttosto dilatati, qui consigliamo una velocità 1,25, per i coraggiosi 1,5, per una visione ottimale.
Niente di nuovo sotto al sole? Qualcosa, per fortuna, a volte salta fuori. Si trova nelle prove inedite, che si slegano dal tracciato della serie per creare sfide più adatte alla dimensione ludica che, in mancanza di un’eliminazione “reale”, per fortuna salta fuori. La sconfitta si accetta meglio, se prima ci si è divertiti. Le emozioni si assestano meglio e finalmente anche da questa parte dello schermo possiamo tremare, gioire, sentire lo stomaco stritolarsi e sciogliersi e ricominciare, passato il gioco, tornati alla realtà. Parafrasandola con Mr. Beast: non siamo mica coreani, perché dovremmo avere lo “squid game” – gioco in cui due avversari cercano di conquistare il campo dell’altro, fatto a forma di calamaro, saltellando come polli su una gamba sola – come prova finale (e infatti la versione dello youtuber contempla un più casalingo gioco delle sedie)?
Questa, per una volta, non è una domanda retorica, e solo il finale della serie, per cui dovremo aspettare il 6 dicembre, ci risponderà. Oggi, al primo checkpoint, c’è un’alta probabilità che Squid Game – La sfida si derubrichi in poco tempo al comparto delle amenità. Diciamo così, però, solo per non pensarci troppo. Altrimenti finisce che premiamo di nuovo play sulla serie-madre, e per qualche motivo le storie, quando si sa già come vanno a finire, fanno male il doppio. Magari avremmo dovuto iscriverci anche noi al reality, e mettere fine una buona volta a tutti questi fantasmi.