Aveva superato i quaranta e Vittorio De Sica stava trovando la sua strada. L’attore-regista, professionalmente, ha vissuto due vite, molto diverse. Nel 1940 ebbe persino (quello che avrebbe potuto essere) un intermezzo hollywoodiano. La vicenda di Rodolfo Valentino, il pugliese morto giovane che era diventato il massimo divo del cinema del mondo, aveva indotto Hollywood a cercare un nuovo italiano che lo rimpiazzasse, o cercasse di farlo. Fra i selezionati c’era Alberto Rabagliati, convocato dalla Fox, che assomigliava a Valentino… nei capelli lisci e tirati indietro. Peraltro Rabagliati non era un vero attore ma un cantante con una certa personalità e di discreto successo. De Sica invece era l’amoroso per eccellenza del nostro cinema. Aveva grande popolarità dovuta a ruoli leggeri e certo non guastava che sapesse anche cantare. Canzoni facili e popolari che si intitolavano Dammi un bacio e ti dico di sì, soprattutto Parlami d’amore Mariù. Non che mancasse la qualità in certi film che lo vedevano protagonista, basta citare due titoli: Gli uomini, che mascalzoni…, del ’32, e Grandi magazzini, del ’39, entrambi di Mario Camerini. La chance americana si risolse in un provino in cui Vittorio cantò Blue Moon, la magia di Rodgers & Hart. Non gli fecero neppure sapere com’era andata. Lo intuì da solo, sfruttò qualche giorno della favolosa ospitalità della città del cinema e tornò a Roma. Meglio così.
Se De Sica fosse rimasto a Hollywood ottenendo una sorta di successo di discreto profilo, alla Rossano Brazzi, non avrebbe dato a Cesare Pavese la possibilità di dire una frase dalla rilevanza assoluta. Una volta domandarono al più grande scrittore italiano del Novecento quali fossero i suoi narratori preferiti. Pavese rispose: Thomas Mann e Vittorio De Sica. Con quell’affermazione l’autore di Santo Stefano Belbo decretava due principî: omologava De Sica al titolare dei Buddenbrook, La morte a Venezia e La montagna incantata, dunque a uno dei massimi scrittori della letteratura moderna, e premio Nobel. Ma soprattutto omologava il cinema alla letteratura. Nessuno aveva mai pensato che quell’arte minore e così giovane potesse neppure scalfire l’arte nobile della parola scritta. Lo fece Pavese. Lui poteva farlo. Quando lo scrittore disse quella frase, De Sica aveva già firmato Ladri di biciclette, naturalmente.
Un altro scrittore importante sulla strada di De Sica fu Cesare Zavattini, l’inventore, sulla carta, del nostro Neorealismo, appunto. Nel ’43 De Sica gira I bambini ci guardano, un film davvero diverso, alto e profondo, con un quanto sentimentale ben tenuto a bada. Il protagonista è un attore che non ha l’aspetto di Amedeo Nazzari, ma la voce più bella del mondo, Emilio Cigoli, che stava dando, e avrebbe dato, la voce a divi come Cooper, Bogart, Gable, Wayne, Lancaster, Holden e altri. Dunque un attore che si divideva fra i contenuti realistici, popolari, del nostro cinema e la “leggenda sognata” del cinema americano. Nei testi statunitensi di cinema, il nome di Cigoli è molto citato. Il film raccontava la storia del piccolo Bricò, rimasto senza padre e abbandonato anche dalla madre per un altro uomo. Si può dire che I bambini ci guardano anticipi, seppure di poco, il titolo ufficiale che determina la nascita della corrente del realismo, che è Ossessione di Visconti.
Finita la guerra, il nostro cinema esplode. In parte grazie proprio alla guerra, ai suoi drammi e ai suoi contenuti, l’ho scritto nella puntata precedente. Nel ’46 De Sica gira Sciuscià. Il titolo deriva da shoe-shine, che significa lustrascarpe. E il film racconta appunto la vicenda di due ragazzini che sopravvivono grazie alle scarpe dei soldati americani che occupano Napoli nei primi mesi del ’45. Il ’46 è anche l’anno di Paisà, l’altra “opera assoluta” di Rossellini. In virtù del fatto che un capolavoro possiede la forza interna per affermarsi dovunque, quei due titoli occupano il cinema e la cultura del mondo. E accade un fatto nuovo, inaspettato ma alla fine dovuto, arriva un riconoscimento super partes, una legittimazione senza precedenti da noi: Sciuscià vince l’Oscar. L’anno prima lo stesso Rossellini si era visto attribuire la Palma d’oro a Cannes. Altro riconoscimento principe. Ma a quei tempi l’Oscar aveva un peso maggiore. Era davvero il Nobel del cinema.
Due anni dopo De Sica acquista i diritti del libro di Luigi Bartolini Ladri di biciclette e ne fa il film. È la storia di Antonio, al quale rubano la bicicletta, indispensabile per lavorare. L’uomo deve procurarsene un’altra, anche se è tutto tranne che un ladro. Il film diventa evento del mondo. Ogni suo fotogramma è una piccola strepitosa estetica compiuta. Il regista fa sostenere gran parte della storia dalla musica di Alessandro Cicognini. Mi piace pensare che se De Sica avesse avuto il coraggio di rinunciare alla suggestione di quel “tappeto”, Ladri di biciclette sarebbe ancora più vicino alla verità e al documento. Anzi, sarebbe verità e documento. Vince praticamente tutti i premi cui partecipa. Ma soprattutto rivince l’Oscar. E non è finita. Nel 1958 a Bruxelles un gruppo di specialisti da tutto il mondo stila una classifica dei film di tutti i tempi. Ladri di biciclette viene inserito al secondo posto, dopo l’immancabile Corazzata Potëmkin. Invito l’utenza a rivedere i due film. Ladri ha mantenuto quasi tutta la sua vedibilità, il Potëmkin appartiene… agli accademici. Ultima considerazione: allora vincevano un Oscar ogni due anni. Adesso… non più.