Verso la fine degli anni Trenta giungeva a Roma il diciannovenne Federico Fellini, da Rimini. Sapeva disegnare, sapeva scrivere discretamente. Qualche anno dopo sarebbe diventato regista. Fellini ha vinto quattro Oscar coi suoi film e uno alla carriera. Hollywood aveva dunque permesso che un non-americano diventasse di fatto un padrone dell’Oscar: è un riconoscimento importante, anzi assoluto. Hollywood, la Casa del Cinema, dichiarava che Fellini è il Cinema. Nessuno come lui.
Ho spesso attribuito ai grandi registi italiani della nostra età dell’oro – De Sica, Visconti, Rossellini, Antonioni e Fellini – il termine “artista generale”. Non faccio differenze di qualità, ciascuno di loro ha firmato opere autonome, che vivono di luce propria, diverse per estetica e per contenuti. Fellini ci ha aggiunto una magnifica attenzione a sé stesso, raccontata attraverso genio e ironia, in film come Roma e soprattutto Amarcord. Ha nutrito, consapevolmente, la propria mitologia. Glielo si può concedere, perché il suo cinema possiede una cifra esclusiva e altissima, per certi versi la più alta.
Fellini comincia secondo convenzione, prima con la radio, poi soggetti e sceneggiature. Lo notano due che contano, Steno e Maccari, che gli saranno d’aiuto. Poco più che ventenne, è già, come si dice, nel giro giusto, se riesce a collaborare con Rossellini in Roma città aperta e Paisà. Nel ’50, insieme a Lattuada, firma Luci del varietà, storia di un gruppo di guitti di avanspettacolo. Una storia perfettamente congeniale a Fellini, da sempre innamorato delle rappresentazioni di “arte povera” quando è povera davvero. Una citazione esemplare in questo senso: I clowns.
La didascalia “i più bravi del mondo” è riferita, come movimento, al nostro realismo (soprattutto) del dopoguerra. Fellini realista è, in un certo senso, una contraddizione di termini, anzi di contenuti. Pochi autori sono meno “realistici” del riminese. Il suo primo film “vero”, Lo sceicco bianco, è la storia grottesca di una sposina che si innamora di un eroe dei fotoromanzi. Il film è del ’52. L’anno dopo Fellini firma I vitelloni, grande film, inutile dirlo, e… quasi “realista”. Ed è lì che Federico comincia a raccontare sé stesso attraverso un gruppo di giovani sfaticati della sua terra.
Vale uno stralcio della mia recensione sul Farinotti: «[…] Più tardi il regista butterà tutto sulla fantasia, sull’impegno e la ricerca. Quando uscì il film parve ad alcuni semplicemente l’istantanea “realista” della provincia, ma c’era molto di più, c’era il mondo ricreato di un autore unico in quella pratica, con sequenze di poetica ben oltre il “realismo”, come la passeggiata “stanca” sulla spiaggia di tutti gli amici, o l’intero episodio del gruppo di avanspettacolo, un mondo per il quale Fellini ha sempre avuto un debole, e nel quale faceva rispecchiare, in grottesco, l’intera rappresentazione della vita».
Prima della fase totalmente fantastica, Fellini firma due film che lo fanno conoscere al mondo, La strada e Le notti di Cabiria. C’è certo del realismo, ma il quanto creativo e visionario sta prevalendo, e si sta imponendo. Protagonista è sempre Giulietta Masina, moglie del regista. Gelsomina della Strada è una sorta di angelo povero e smarrito che suona sempre la stessa nenia con la tromba, non c’entra niente col mondo. Cabiria è una prostituta romantica, anche lei indifesa, che c’entra poco col mondo. Sembrano film francesi. Fellini ha raccolto l’indicazione di quel cinema, quella del Fronte Popolare, dei Renoir, dei Carné e dei Gabin, dove operai e militari parlavano e soffrivano come poeti del popolo. E ci ha messo un po’ di roba italiana, ma soprattutto roba di Fellini. La strada e Le notti di Cabiria: due Oscar consecutivi, nel ’56 e ’57. Come ho già scritto, allora succedeva.
Tre anni dopo ecco La dolce vita, un film che non è neppure un film, ma un manifesto, un simbolo, un “lessico”, un modo di dire. Da allora abbiamo un artista prevalente del mondo. Lana Turner, nel ruolo di attrice di successo (a Hollywood) nello Specchio della vita ritiene di aver ottenuto il massimo riconoscimento quando viene chiamata in Italia a fare un film con “Fellucci”. Fellini diventa anche il disegno del regista: il cappello, quel suo faccione che non si fa… educatamente capire. Niente Oscar per La dolce vita, soltanto, si fa per dire, la Palma d’oro di Cannes.
Altri tre anni ed ecco 8½. Anche qui è efficace lo stralcio del Farinotti: «[…] 8½ è da molti ritenuto la più alta espressione di Fellini, più ancora della Dolce vita. Qui tutto si compie, tutti i misteri vengono identificati. Il mondo del regista si evolve da (più o meno) reale che era, sale di dimensione per diventare tutto. Tutto incredibilmente nella sua “prima persona”, come una sorta di paradiso e inferno efficacissimi, onnicomprensivi: il cinema di Fellini è complice, misterioso e ruffiano, blasfemo e religioso, è puttanesco e crea disagio, è eroico e vigliacco, è uomo e donna, qualunquista, apolitico, periferico, olimpico e provinciale. Ma la soglia di fantasia, magia e sortilegio è altissima, raggiungibile solo da Fellini. Premio Oscar».
Nel ’75 Amarcord è il quarto Oscar. Il quinto alla carriera viene attribuito a Fellini nel 1993. E siamo a cinque Oscar e una Palma d’oro. Quello era il nostro cinema di allora, quando eravamo “i più bravi del mondo”. Appunto.