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‘The Social Network’, 10 anni dopo

Il film nominato all’Oscar sulla fondazione della piattaforma che ha cambiato il gioco (e danneggiato il dibattito) non aveva la sfera di cristallo, ma è un’altra grande storia americana di vittorie e sconfitte

Foto: Merrick Morton/©Columbia Pictures/Courtesy Everett Collection

Mark è arrabbiato. La sua ragazza ha appena rotto con lui in un bar. Mark inizia a correre. Corri, Mark, corri! Torna nella sua stanza del dormitorio di Harvard e apre il suo laptop. Visto che è il 2003, il browser è già impostato su LiveJournal.com. Mark scrive diversi messaggi incazzati e preme “invia”, spargendo un po’ di bile online. Non è la prima volta che succede qualcosa del genere quando ci sono di mezzo uomini arrabbiati, scelte sbagliate e Internet. Né sarà l’ultima.

A Mark viene un’idea: un sito che confronta il livello di hotness delle studentesse di Harvard. Scrivi il codice, Mark, scrivi il codice! (Anni dopo, lo definirà uno “scherzo”.) Poi si intrometterà nei database delle varie confraternite del college e ruberà le foto, creando un modo divertente ma crudele per i ragazzi di passare il martedì sera. Mark genera una quantità folle di traffico e quasi distrugge i server di Harvard. Viene rimproverato, ma inizia la rivoluzione.

Quando The Social Network è uscito dieci anni fa, un disclaimer diceva che Facebook – la fenice che sarebbe risorta dalle ceneri di quella notte di incazzatura online – aveva 500 milioni di membri in 207 Paesi. Oggi conta circa 2,7 miliardi di membri praticamente in ogni nazione del mondo, anche se alcune di queste hanno bloccato l’accesso al sito. I vantaggi sono stati notevoli e le battute d’arresto – alla libertà di parola, ai tentativi di informare, al dibattito civile e alla sicurezza di intere comunità e razze – si sono metastatizzate negli ultimi cinque anni. Basato sul libro di Ben Mezrich del 2009 The Accidental Billionaires come fonte principale, The Social Network, che inizia con Jesse Eisenberg mentre ricrea il rabbioso blog “Eureka!”, avrebbe finito per conquistare otto nomination agli Oscar (ne avrebbe poi vinti tre). E avrebbe dimostrato che David Fincher è in grado di realizzare film fantastici che non coinvolgono serial killer o Brad Pitt, che il frontman dei Nine Inch Nails Trent Reznor può scrivere colonne sonore e che Justin Timberlake può recitare. E ci avrebbe regalato anche l’origin story di un giovane Frankenstein e del mostro che ha creato, un racconto che forse ha eclissato la vera storia dell’ascesa di Mark Zuckerberg. Quando si parla di Facebook, tuttavia, la verità sembra essere molto mutevole e plasmabile.

La tentazione è di riconoscere nel film, diretto da Fincher e scritto da Aaron Sorkin, il racconto di una storia di successo americana ironica e premonitrice: che cosa ci guadagna un uomo se conquista il mondo intero ma perde la sua anima, e forse anche qualche like? Ma se non guardate The Social Network da un po’, provate a farlo. Non predice tanto il circo che ne sarebbe derivato, esamina invece un certo sottobosco di privilegi della Ivy League e quella cultura della fratellanza tech californiana che, nel 2010, aveva già provocato un sacco di caos sociale. I gemelli Winklevoss del film (“i Winklevi”, come li chiama Zuckerberg) non potrebbero essere più patrizi, futuri padroni dell’universo che pensano di reggere il mondo sulle loro spalle da canottieri. Nonostante l’ammirazione per il genio del compagno di college, non riconoscono Zuckerberg come un pari, ma al limite come un potenziale dipendente: il cervello che li aiuterà a trasformare l’intuizione di un social network d’élite in una macchina per fare soldi. Invece Zuckerberg prende tempo, “ruba” la loro idea e fa uscire prima un prodotto superiore. Fondamenti del mercato libero. I fratelli non riescono a credere di essere stati fregati. «Non ha tre amici da mettere insieme», afferma Divya, il loro hype man, ma poi nota che si sono iscritte 650 persone il primo giorno. Chi rischia di essere la nota a piè di pagina adesso?

E poi: a quale porta bussi quando hai fatto incazzare l’aristocrazia old-school? Ti rivolgi ai nuovi ricchi, e cioè a Sean Parker. Il fondatore di Napster è presentato come la combinazione tra una fata madrina e un venditore di miracoli della Silicon Valley, viene introdotto quando si è già portato a letto la futura star di Cinquanta sfumature di grigio Dakota Johnson ed è interpretato dall’ex membro degli NSYNC e oggi popstar mondiale in proprio Justin Timberlake. Tutto gioca a suo favore. Quando inizia a sussurrare all’orecchio di Mark di cervelli da un milione di dollari e profitti da miliardi di dollari, il giovane ne è rapito. È anche il momento in cui Eduardo Saverin, il miglior amico di Zuckerberg e co-creatore di Facebook secondo il film, viene gentilmente escluso dal quadro per la prima volta. Lui fa parte della vecchia scuola di business “fatti il mazzo e paga i tuoi debiti”, non è il tipo da party. C’è un nuovo modello di leadership in città e indossa una giacca sportiva con il cappuccio.

Justin Timberlake e Jesse Eisenberg. Foto: Merrick Morton/©Columbia Pictures/Courtesy Everett Collection

È più o meno qui che il film, come Zuck, scambia un tipo di tossicità con un altro. L’unica differenza è che, anche quando The Social Network rende glamour entrambi gli imbrogli, mantiene ancora saldo il suo punto. La stella polare di Zuckerberg è la rabbia, che emerge ancora di più quando ci concentriamo sulle deposizioni in tribunale e sugli scatti d’ira di Mark contro gli avvocati. Ma nel pacchetto c’è pure l’invidia. Parker e Saverin continuano a fare a gara a chi ha l’idea migliore. Il film sta nell’inquadratura che arriva pochi istanti dopo quello scambio: lo sguardo di puro desiderio sul viso del fondatore di Facebook. Non solo può battere tutti i Winklevi del mondo al loro stesso gioco, ma cambia completamente il gioco per adattarlo a se stesso. La bella vita è la migliore vendetta dei nerd.

È una classica storia americana: il ragazzino geniale affronta i potenti e vince, perpetratore o vittima di cause legali, amicizie finite e pugnalate alle spalle. E, dieci anni dopo, sei ancora colpito da quanto tutto sembri allinearsi per rendere questa storia un nuovo classico. La regia di Fincher è puntuale come sempre, ma, a differenza di alcuni dei suoi lavori precedenti, c’è un perfetto equilibrio tra una pura esibizione di abilità tecnica e la capacità di lasciare che le cose respirino nella narrazione: il brivido che attraversa la sua produzione più controllata e gli esercizi di genere “alti” sembra essersi sciolto qui. La sceneggiatura di Sorkin è piena della sua caratteristica verbosità a macchinetta, e chiunque sia allergico all’arguzia brillantissima dovrebbe raddoppiare la sua solita dose di antistaminico. Eisenberg non aveva ancora trovato un ruolo che rendesse giustizia al suo talento come questo. Ed era la prima volta che molti di noi si rendevano conto che Rooney Mara (l’oggetto del desiderio che probabilmente dà il via a tutta la faccenda) e Armie Hammer (che interpreta entrambi i gemelli Winklevoss, con l’aiuto del collega Josh Pence e di una tecnologia all’avanguardia) erano attori da grande schermo. Se Reznor e il suo socio Atticus Ross avessero scritto solo quell’apertura al pianoforte e quella versione apocalittica di In the Hall of the Mountain King, avrebbero comunque meritato l’Oscar. Aggiungete la fotografia da golden hour in una torre d’avorio di Jeff Cronenweth e l’abilissima giocoleria sulla linea temporale dei montatori Kirk Baxter e Angus Wall, e capirete perché il film è finito in così tanti elenchi dei migliori del decennio.

L’unica differenza tra oggi e allora è che, anche se parliamo del 2010, era ancora vagamente possibile considerare Mark Zuckerberg “piccolo” in questo scenario. The Social Network può dare una visione tutt’altro che lusinghiera del gigante della tecnologia quando era giovane e indisciplinato, ma considerarlo come una sorta di avvertimento su di lui sarebbe un errore. È grande cinema che, nonostante i difetti del personaggio, ci dice poco sul fatto che quel ragazzo spesso impaziente che vediamo nel film sia oggi nell’occhio del ciclone per disinformazione, mining di dati e il suo contributo alla fine del dibattito civile. Resta solo un altro ragazzo antisociale in una stanza, un’altra storia à la Gatsby alimentata da aspirazioni di classe, estirpazione di status e il bisogno di impressionare una donna. Un tizio che continua a cliccare per aggiornare la pagina Facebook della sua ex, incessantemente ancorato al passato.

Armie Hammer e Mix Minghella. Foto: Merrick Morton/©Columbia Pictures/Courtesy Everett Collection

Zuckerberg ha sempre sostenuto che non sia mai successo (stava già con la futura moglie Priscilla Chan in quel periodo), e ha ripetutamente definito The Social Network un’opera di finzione. Se fosse stato davvero sveglio, avrebbe assunto il team creativo del film per tornare a girare e, nello spirito di trasformare il loro film in una profezia ancor più clamorosa, avrebbe aggiunto una nuova coda. In questa versione, dopo aver visto Eisenberg/Zuckerberg aspettare per sempre quella convalida che non arriverà mai, c’è una dissolvenza in una ripresa diurna esterna. Un uomo con la barba – potrebbe interpretarlo Justin Theroux? – guarda un giornale, visto che la lettura delle notizie sul telefono è ancora lontana. Un titolo menziona il dominio di Facebook come piattaforma di social media, ma l’articolo che vediamo suggerisce che potrebbe esserci uno svantaggio nel fatto che tanta comunicazione avvenga prevalentemente online, in circoli così insulari. Penso di avere un’idea di come fare questo genere di cose, solo in maniera più breve e meglio, dice a sé stesso ad alta voce. Penso di sapere come trovare un’alternativa che consentirà alle persone di unirsi e colmare il loro divario in uno spirito di unità globale. Lui guarda verso l’alto e puoi quasi vedere la lampadina esplodere nella sua testa.

E alla fine quest’uomo, che si chiama Jack Dorsey, sorride, si volta e inizia a camminare lungo la University Avenue di Palo Alto. La telecamera si muove e poi si ferma a inquadrare un uccello, che inizia a cinguettare così forte e inesorabile da cadere senza vita su una bandiera americana. Titoli di coda. Potrebbe non essere quello che è realmente successo. Ma, quando la leggenda diventa realtà, si riporta la leggenda. E poi si preme “invio”.

Da Rolling Stone USA

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