«Tutto invecchia meno il sorriso». Chiude il suo appello pubblico citando una propria poesia Silvano Agosti, e così apre il crowdfunding su produzionidalbasso.com (che ha già superato i 10.000 euro) per l’Azzurro Scipioni, luogo mitico e rifugio cinefilo per molti romani, che lì hanno conosciuto tanto cinema d’autore spesso godendo prima o dopo dei geniali voli pindarici verbali, racconti e analisi del regista, scrittore e esercente che ha fatto della libertà e dell’arte i suoi fari. A chi contribuirà a far restare in vita la Sala Lumière (360 capolavori all’anno, i suoi compresi) e la Sala Chaplin (dove passano i lungometraggi premiati nelle maggiori rassegne internazionali o dai riconoscimenti più importanti) lui invierà, spese di spedizione a suo carico, dvd, libri, un manuale di cinema che ti insegna a produrre un’opera cinematografica a costo zero. Perché, parafrasando questo meraviglioso e romantico artista, di cinema si vive, e per questo non lo si può far morire. Uno come Agosti che chiede aiuto, peraltro, è il segno della crisi profonda attuale: per anni ha dato tanto senza chiedere nulla, ha cresciuto generazioni di appassionati combattendo contro un mercato cannibale, ora tutta quella bellezza reclama un riconoscimento, un sostegno per (r)esistere.
Non è un caso limite, né la punta di un iceberg. Lo conferma l’Anteo Palazzo del Cinema di Milano, punta di diamante dell’esercizio cinematografico milanese (11 sale, di cui una multimediale e una per l’on demand, una sala cinema-ristorante, la Biblioteca dello Spettacolo, un giardino in cui non di rado sono ospitati happening di grandi distribuzioni e ancora tanto altro) e probabilmente di tutta Italia. Sergio Oliva, socio dell’AD Lionello Cerri e responsabile della programmazione, è chiaro sul futuro. «Ne usciremo con le ossa rotte, ma conterà come ci rialzeremo. Dovremo rimboccarci le maniche e dovrà esserci un aiuto pubblico, come per il resto dell’economia». Il viaggio di Rolling Stone nel mondo del cinema e nel futuro della sala non può non passare per queste esperienze fondamentali e fondanti. «Il 15 giugno saranno quattro i mesi di stop. Sono tanti, troppi». Così tanti che, lo afferma il presidente ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici) Mario Lorini, «passeremo dal +22% dei primi due mesi del 2020 a perdite, per quanto riguarda i 4000 schermi su circa 1600 strutture, stimabili in 32 milioni di ingressi e circa 210 milioni di euro. Siamo passati dalla miglior performance a livello europeo, come indice di incremento delle presenze, +14,4%, a questo abisso, in poco più di due tragiche settimane. Proprio mentre si percepiva una ritrovata fiducia nel cinema. Anche e forse soprattutto quello italiano, guardando agli ultimi ottimi risultati, dall’Immortale a Pinocchio. Lo Stato non deve tirarsi indietro: sappiamo che i 245 milioni di euro stanziati servono per un comparto enorme, ma non va dimenticato il posto che ha nell’immaginario collettivo il nostro settore, oltre che la sua centralità economica».
Lo streaming non è un nemico, ci sembra di capire dagli esercenti. Altrove grandi catene hanno alzato un muro contro VOD e affini, qui se l’ANEC non si è messa di traverso ai listini trasferiti parzialmente online, in quanto “esperienza emergenziale”, Oliva ci conferma che si è disposti, nell’esercizio, a vivere come complementare questa realtà. «Il cinema è ancora aggregazione. Lo dimostra il marginale successo dello streaming e i suoi enormi limiti venuti fuori in queste settimane. Non è una realtà competitiva, come non lo è la tv: uscire di casa, trovarsi, condividere è ancora appannaggio unico dei cinema». Ecco perché #iorestoinsala (che replica lo schema della territorialità dei luoghi di proiezione in rete: si acquista il biglietto della sala virtuale, legata però a luogo fisico, per il film online) o miocinema.it (che prevede l’inserimento di un codice di avviamento postale che automaticamente destina parte degli introiti alle sale di riferimento) possono essere buoni compagni di viaggio. Sembrano proposte in linea con le affermazioni di Nicola Maccanico, il CEO di Vision Distribution che qui aveva suggerito come diversi film, per budget e target, possano avere differenti destinazioni fisiche o virtuali, così da rendere più coerente e completo e performante il mercato. E se proprio il lockdown ha confermato a tutti, addetti ai lavori e non, la centralità della sala, la voglia di luoghi di aggregazione – «a me piace chiamarli operatori culturali e non esercenti», precisa Lorini – rimangono determinanti la sostenibilità economica e quale sarà il futuro della nostra socialità. «Se torneremo ad abbracciarci, a baciarci su una guancia per salutarci, a non aver paura dell’altro, per quanto sarà difficile arrivarci e lunga l’attesa, allora potremo davvero ricominciare». Sergio Oliva è chiaro: come e quanto riaprirà l’Anteo dipenderà dall’offerta distributiva il 15 giugno. «Mostreremo anche opere viste meno o altre che hanno visto la loro avventura interrotta bruscamente», puntando quando sarà possibile su una programmazione che al Palazzo del Cinema è sempre stata creativa, e su rassegne, festival, incontri, visioni, dibattiti. Gli spettacoli saranno sicuramente meno, «perché in queste condizioni non potremo assumere più persone: per noi le risorse umane sono importanti, noi abbiamo una struttura da teatro, con tanto di ufficio comunicazione e 20 dipendenti, e stiamo integrando la cassa integrazione in deroga perché abbiano gli stessi stipendi di prima e non siano loro a pagare questo momento di difficoltà. Quello che ci danno merita il nostro aiuto, ora, anche se non è facile mantenere questi impegni, soprattutto dopo gli ingenti investimenti sulla struttura fatti, ma riteniamo giusto e doveroso farlo».
La ripartenza con il freno a mano è confermata pure dal Cinemino, altro ritrovo cinéphile milanese versione mignon, con la presidente dell’associazione che lo gestisce, Agata De Laurentiis. «Se ci saranno i film, partiremo con una proiezione al giorno». L’estate sarà fondamentale come palestra. Lorini è d’accordo: «Le arene le vedevo, prima, come un percorso riabilitativo. Ma, ora che si è anticipata la riapertura delle sale rispetto a quello che credevamo, saranno una risorsa ancora più importante. Sinceramente non credo molto ai drive-in: mi sembra una soluzione anacronistica, poco adatta all’Italia, perché non abbiamo i pick-up scoperti o le Cadillac decapottabili americane. Nonché costosa. E pure inquinante, in un mondo che va in direzione opposta. E passare dal chiuso delle case a quello delle nostre auto non ci sembra il massimo. Rimane fondamentale, comunque andrà, che ci siano protocolli sostenibili: forse l’ultimo DPCM si poteva evitare di pubblicarlo, ha spaventato molti e potrebbe essere già superato dagli eventi fra due settimane. Compatibilmente ad altre esperienze – penso ai grandi ristoranti dove si può stare in tanti con i giusti accorgimenti e ci si può togliere la mascherina per mangiare – bisogna che vinca il buon senso, e ci si deve fidare della nostra esperienza nella gestione dei flussi di persone. Possiamo sperimentarlo a partire da Moviement (progetto che dall’anno scorso unisce pubblico e privato al fine di portare la programmazione a 12 mesi su 12, senza la storica latenza estiva, ndr). Di sicuro serve comprensione: il cinema italiano dovrà essere giudicato con benevolenza, visto i problemi che vivrà. Inizialmente il film sarà persino accessorio rispetto all’importanza della ripartenza del sistema, all’esigenza di dare una sensazione di rinascita, pur con una socialità distanziata ma sostenibile. Non dimentichiamoci che parliamo di un problema mondiale: negli Stati Uniti sono morte 100.000 persone, in Estremo Oriente la riapertura dei cinema è stata farlocca. E, nonostante tutto, ci crediamo: il nostro faro è Christopher Nolan, che vorrebbe che Tenet fosse il simbolo della ripartenza. Questo ci dà una grande forza, è un segnale importante a livello planetario il fatto che si possa pensare al 17 luglio come data d’uscita».
Il punto, però, è che non basta tutto questo. Serve una rivoluzione: necessaria e già in ritardo prima del Covid, ora ancor più doverosa. A sottolinearlo sono due esperienze altre e alternative. Come quella del Cinemino, nato da poco ma con idee chiare. «Serve un processo di svecchiamento, soprattutto nelle strategie distributive dei film, un’attenzione diversa rispetto a quella attuale, un arricchimento della proposta che vada oltre il play and stop, il prodotto va inserito in un contesto unico e originale, servono approcci ad esso elaborati e non standardizzati», afferma Agata De Laurentiis. «Serve individuare i giusti target nel pubblico, cosa che a noi riesce meglio, visto l’obbligo del tesseramento: nel mondo del cinema, pochi dimostrano di avere una cura del proprio pubblico e delle sue preferenze. Infine, la qualità del luogo fisico: il cinema deve essere accogliente, devi sentire di vivere un’esperienza speciale anche architettonicamente, non può esserci solo la visione del film. Che però rimane, non dimentichiamolo, il contenuto fondamentale. Siamo animali sociali, supereremo la paura di tornare ad aggregarci, ma dobbiamo fare in modo che ne valga la pena». Un pilastro della nuova concezione che portò pochi anni fa all’ideazione del nuovo Anteo. «Per noi è decisivo questo passaggio, non si può prescindere dalla multifunzionalità, da un luogo che sia un polo culturale eclettico», aggiunge Sergio Oliva. «All’Anteo puoi entrare senza biglietto, puoi viverlo indipendentemente dal vedere un film». Un’agorà moderna. E da qui che si riparte, dal dare qualcosa di più e di meglio. «Il futuro vedrà prevalere la qualità, e sono convinto che siamo in tanti a offrirla. Conterà la comunità che sapremo creare e mantenere attorno a noi».
Lavoro che fanno da sempre i ragazzi del Cinema America, realtà che ha detto (e fatto) in e da tempi non sospetti tutto ciò che ora viene auspicato. E per questo è stata spesso osteggiata, in particolare dagli esercenti (basterebbe vedere l’imbarazzante dichiarazione recente del presidente ANEC Lazio). Hanno portato – e continueranno a farlo, dal 3 luglio al 30 agosto su ben tre schermi diversi – cinema, cultura, riqualificazione nelle periferie romane, da Ostia alla Cervelletta. Hanno reso piazza San Cosimato una tappa dei grandi appuntamenti cinematografici internazionali. Hanno riavvicinato tanti all’esperienza cinematografica, lottato per una cultura e una città migliore in anni in cui Roma si rattrappiva, e tutto questo rimediando pestaggi da fascisti, un muro contro muro costante dalla politica cittadina (vedasi la querelle con Luca Bergamo, assessore alla cultura della giunta Raggi, e non solo) e difficoltà economiche notevoli, per aver sempre immesso fondi nel sistema cinema con la loro programmazione.
Ora saranno anche esercenti, perché da novembre, «quando non ci saranno più protocolli e restrizioni», partirà il loro ennesimo miracolo, la riapertura della Sala Troisi a Trastevere. Hanno cazzimma, coraggio, visione e non hanno paura. Lo dimostra Valerio Carocci, che del Cinema America è l’anima, il portavoce, il leader. E che molti, compreso chi scrive, vedrebbero benissimo come sindaco capitolino. Di sicuro non le manda a dire, individuando i nervi scoperti del sistema senza mezze misure. «Credo che il futuro delle sale cinematografiche potrà essere positivo solo ed esclusivamente se il sistema sarà veramente libero, se verrà lasciata la possibilità agli esercenti (non legati a distribuzioni e produzioni) di programmare liberamente le proprie sale, curando il rapporto con i territori e le persone come solo chi vive la sala e la città o Paese in cui questa insiste può fare. Se si continuerà a mischiare i piani della filiera cinematografica, tra parentele varie e rapporti societari, non potremo che continuare a far del male al nostro amato cinema italiano, agli incassi e a ogni pezzetto che compone l’industria. Gli agenti regionali, legati a doppio filo con alcune grandi distribuzioni e grandi esercizi cinematografici, sono un cancro che sta portando alla rovina di tutto, un male inarrestabile e progressivo, che non garantisce accesso al prodotto equo e libero». Un sistema vecchio, obsoleto, a volte condizionato dal ricatto dei pacchetti di film: vuoi il blockbuster? Prendi anche questi tre. E così poi rimane poco o nulla per l’offerta indipendente o per puntare su nuovi autori e realtà. Un sistema da riformare alla radice e su cui investire con un ricambio, anche generazionale, deciso. «C’è bisogno di energie giovani, non per forza di età. La gestione delle sale cinematografiche è ferma da almeno sessant’anni, non si può pensare di continuare a far ciò che si faceva prima se le cose non sono mai migliorate, ma sempre peggiorate. Naturalmente al di là di qualche soluzione tampone, avuta solo immettendo fondi pubblici e magari comprando qualche biglietto “fantasma”. Le esperienze in questo senso veramente pionieristiche sono quelle, a Milano, di Sancassani al Mexico e di Paola e Monica al Beltrade, del Postmodernissimo a Perugia, del Cinemazero a Pordenone. E ancora l’Ambrosio di Torino, lo Stensen di Firenze, il Kinemax di Gorizia, e così via. Ce ne sono tante, per fortuna».
Un fiume in piena Carocci, che non risparmia neanche «il capitolo estivo, dove qualcuno ha pensato bene di risolvere il problema dell’assenza di pubblico nelle sale ottenendo fondi pubblici per proiezioni a pagamento per i cittadini, cercando di riempire luoghi al chiuso mentre fuori facevano 40 gradi, con film nuovi mandati spesso al macello. Ho sempre trovato molto ironico che, per promuovere la campagna Moviement sui social sostenuta con un milione di euro di fondi Mibact, l’Anica abbia pensato bene di convertire la vecchia pagina, tanto odiata e ora sparita, dei Cinemadays (si trova tutto nella cronologia della pagina, vedi foto, ndr). Non credo sia difficile rendersi conto che il problema dell’assenza di pubblico in sala d’estate non è solo il prodotto, ma un fattore culturale che noi italiani abbiamo nella nostra tradizione più viscerale: d’estate amiamo stare all’aperto, non tra quattro mura, e spesso con l’aria condizionata non funzionante. Ettore Scola raccontava sempre di aver scoperto il cinema in un’arena estiva. Per risolvere il problema basterebbe estendere a tutta Italia una legge della Regione Lazio che consente a ogni esercente di avere negli spazi più vicini alla sua struttura una licenza di pubblico spettacolo per arena estiva del pari numero di poltrone che ha al chiuso. Si dovrebbe detassare e semplificare tutto il processo burocratico che porta all’apertura di un’arena all’aperto, e a questo punto distribuirvi film di prima visione, condizione che moltiplicherebbe esponenzialmente gli incassi estivi».
Soluzione peraltro che non comporterebbe la necessità di portare avanti progetti come Moviement, che prevedono notevoli investimenti pubblici, e che al contempo renderebbero il sistema più forte, saldo e redditizio. E, certamente, più centrale nella vita delle nostre città. «L’ultima estate», chiude il 28enne presidente dell’Associazione Piccolo Cinema America, «è stata un capolavoro: alle arene a pagamento è stato perlopiù negato di proiettare i film in uscita estiva, che potevano essere proiettati quasi esclusivamente nelle sale, ovviamente meno frequentate. Potremo fare tanto per quest’arte e per quest’industria, volendo. Ma temo che continueremo a farci del male, cercando sempre un capro espiatorio più debole di noi». Il segreto, forse, è tutto qua. Uscire dal vittimismo che da decenni fa dire a troppi “il cinema è morto” ed essere ossessionati dal cercare i colpevoli, invece di una soluzione.