Il ‘movente’
Detto senza ironia alcuna nei riguardi di uno uno dei casi più neri (e seguiti) degli ultimi vent’anni di cronaca italiana, quello che innanzitutto manca a Yara – il film di Marco Tullio Giordana appena arrivato su Netflix e dedicato al delitto di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra (Bergamo) trovata morta nel 2011 – è il movente, se non la famigerata “necessità”. Nell’epoca dei true crime, perché realizzare un’opera di finzione che nulla aggiunge e, se mai, rischia di diventare un’operazione guidata solo da una certa morbosità? Il pubblico apprezza (nei primi giorni dall’uscita, il titolo è il più visto su Netflix in Italia), ma forse più per un misto di indiscrezione e inerzia: rispetto ad operazioni cinematografiche sempre legate alla nostra cronaca recente ma con una chiara valenza artistica e un importante peso politico – il primo pensiero va ovviamente a Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, sulla vicenda Cucchi – Yara solleva invece una sola e semplice domanda: perché? La risposta, probabilmente, non l’avremo mai (o la sappiamo già).
L’estrema sintesi
L’altro limite dell’operazione è che, sempre nell’epoca – la nostra – che tende a “serializzare” tutto, sia stato scelto il formato film. Noi siamo per la sintesi sempre e comunque, sia chiaro, ma in questo caso è davvero estrema, a scapito del giallo (se giallo, ahinoi, doveva essere). Se uno spettatore che negli ultimi vent’anni è vissuto su Marte si trovasse di fronte a questa storia, probabilmente non capirebbe nulla della vicenda, e anche del peso che ha avuto in sede giudiziaria. Specialmente nel momento più rilevante dell’indagine: la decisione, da parte della pm Letizia Ruggeri (interpretata sullo schermo da Isabella Ragonese), di “mappare” il Dna di un’intera area geografica per trovare l’assassino. Una modalità che ha rivoluzionato la “detection” nostrana (e, a suo tempo, ha diviso specialisti e opinione pubblica) e che qui è invece liquidata in poche, velocissime scene. Una volta che sarebbe servita una serie (per quanto dall’opportunità sempre discutibile), ci ritroviamo invece con un film di un’ora e mezza che semplifica e sintetizza troppo. Perché? (E due…)
Il cast ‘a caso’
La citata Isabella Ragonese, nei panni del pubblico ministero che è il vero protagonista del film, fa quel che può per condurre l’indagine – e l’incredulità dello spettatore – fino alla sua risoluzione. Ma a volte sembra più spaesata di noi che guardiamo. E così il resto del cast, composto da attori parimenti bravi sulla carta, ma assemblati un po’ a caso: da Alessio Boni, l’unico vagamente local qui nei panni di un carabiniere particolarmente “lirico”, a Thomas Trabacchi, anche lui in divisa ma ancora più sottoutilizzato. Più interessante il lavoro sui “supporting” Sandra Toffolatti e Marco Pirello, alias i genitori di Yara Gambirasio; a cui invece presta il volto la newcomer Chiara Bono, troppo poco bergamasca per la (ingrata) parte. La menzione, nel caos generale, va a Roberto Zibetti nel ruolo di Massimo Bossetti (no spoiler, sempre per quel tizio vissuto su Marte) e a Gloria Bellicchi, l’ex Miss Italia che funziona benissimo in quello della di lui moglie Marita.
La confezione
All’inizio di Yara campeggia il logo Mediaset, perché il film è uno dei frutti della collaborazione tra Netflix e il Biscione (vedi anche Il divin codino e, più di recente, Mio fratello, mia sorella). Niente di male, tranne che si respira inevitabilmente quell’aria da “post Striscia la notizia“. Se le produzioni originali Netflix Italia hanno iniziato ad abituarci bene, almeno sul versante cinematografico (dal citato Sulla mia pelle a L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, fino all’imminente È stata la mano di Dio, il capolavoro di Paolo Sorrentino in arrivo sulla piattaforma a dicembre), questo titolo acchiappa-pubblico si rivela ben al di sotto della qualità ormai media dello “Studio”, anche solo a livello di confezione e costruzione. A dispetto dei nomi coinvolti – oltre al regista della Meglio gioventù, anche la grandissima montatrice Francesca Calvelli – pure a livello visivo resta tutto molto “medio”, per usare un eufemismo. Netflix vuole diventare a tutti gli effetti una rete generalista, l’abbiamo capito: ma forse così è troppo.