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«Non fu mai impallato», recita l’epitaffio di Vittorio Gassman, morto il 29 giugno del 2000. Bastano queste quattro parole a definire l’essenza di un attore che è sempre stato insieme dramma e farsa, divo e maschera, icona e clown. In una parola: mattatore, come lui stesso amava definirsi. A vent’anni dalla sua scomparsa, ecco il suo best of.
Dopo una dozzina di ruoli sullo schermo (e senza contare la gavetta sul palcoscenico con maestri come Luchino Visconti), Giuseppe De Santis gli offre il primo ruolo al cinema rimasto davvero memorabile. Ovvero quello di Walter Granata, il fascinoso pregiudicato in fuga che finirà tra le mondine capeggiate da Silvana Mangano. Un colpo di fulmine nelle risaie (e tra gli spettatori/spettatrici dell’epoca).
Il mattatore (copyright presso se stesso) del dramma si misura con la più clamorosa delle commedie all’italiana. Dirige Mario Monicelli, le spalle sono nomi “minori” come Marcello Mastroianni e Totò, la pupa di turno Claudia Cardinale. Ma il protagonista senza freni è Giuseppe Baiocchi detto “Peppe er Pantera”, pugile facile al KO coinvolto nel furto (quasi) perfetto. Allora non si chiamavano heist movie: ma questo è il più bello di tutti. E anche la consacrazione di Vittorio come commediante DOP.
Commedia o tragedia? Se c’è (ancora) Monicelli – più Alberto Sordi come comprimario perfetto – tutte e due. La viltà si trasforma in umanità (vedi uno dei finali più strazianti di tutto il cinema italiano) nella parabola di Oreste Jacovacci il romano e Giovanni Busacca il milanese: cioè Gassman. Battute che non sono invecchiate di una virgola («Se la patria la dovessero difendere solo le persone perbene, te saludi patria», dice Giovanni) e Leone d’oro alla Mostra di Venezia (ex aequo con Il generale Della Rovere di Rossellini). Altro che 1917.
Dopo due film con Dino Risi (Il mattatore e Una vita difficile, ma in un cammeo nel ruolo di se stesso), il capolavoro assoluto. Il sorpasso è, ad oggi, il più grande affresco dell’Italia del Boom. E anche la quintessenza del “cialtrone” di Gassman: «A Robe’, che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta, si capisce», pontifica il suo Bruno Cortona di fronte al timido Roberto di Jean-Louis Trintignant. Finale struggentissimo: Vittorio ormai ci aveva allenati.
Se commedia dev’essere, allora famo una comica per davvero. La coppia Monicelli-Gassman strikes back in una farsa che mischia Storia e calembour, avventura picaresca e buddy movie. Brancaleone da Norcia, il rampollo di una nobile famiglia decaduta interpretato dal nostro, è la sua maschera più debordante (e giustamente passata alla storia). «Brancaleone da Norcia non fece mai a mezzo con nessuno!»: e nemmeno Vittorio. La scena è tutta sua.
La “prova generale” dei Mostri sempre by Dino Risi, conduce a un’altra tappa fondamentale della collaborazione tra attore e autore. Ovvero questa cinica ricognizione del malcostume italiano, in cui il giudice Mariano Bonifazi di Ugo Tognazzi duella con l’imprenditore corrotto (anche moralmente) Lorenzo Santenocito di Gassman. Che, a sua volta, è quasi una preparazione a un altro dei suoi ruoli più celebri: il Gianni Perego di C’eravamo tanto amati. Ma una cosa alla volta…
Altro giro, altro Risi. Stavolta però in un dramma venato di mélo. Vittorio, ormai cinquantenne, trova il personaggio-icona della maturità: il capitano non vedente Fausto Consolo, accompagnato in un on the road italiano da una giovane recluta. Senso della vita (dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino) che oggi verrebbe facilmente “cancellettato”. Invece, quasi trent’anni dopo, ne fu tratto un remake hollywoodiano: Scent of a Woman, che valse l’Oscar ad Al Pacino (mentre il nostro divo, premiato a Cannes per il ruolo, dall’Academy non fu mai nominato: vergogna!).
Dicevamo: Gianni Perego. Da solo basterebbe a sancire definitivamente una carriera. Aggiungiamo: Ettore Scola, alla prima delle (fortunatissime) collaborazioni con Gassman. Che, nel trio di amici partigiani composto anche da Nino Manfredi e Stefano Satta Flores, è quello che perderà l’ideale (e anche l’amore di Stefania Sandrelli). Una sfilza di battute instant-cult tale da rendere impossibile la scelta della più bella di tutte: «Il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti»; «Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici?»; «La nostra generazione ha fatto veramente schifo». (Andate avanti voi…)
Ancora Scola, e ancora un capolavoro che però – a differenza del “subito classico” C’eravamo tanto amati – è stato rivalutato col tempo. Per fortuna: perché è uno dei film italiani più belli di tutti i tempi. Di certo, la fotografia più precisa dell’intellighenzia politica e culturale del nostro Paese (e delle sue terrazze, ben prima dei trenini di Paolo Sorrentino). E ancora Gassman, stavolta deputato del PCI alle prese con un altro amore impossibile per Stefania Sandrelli: il discorso all’assemblea del Partito diventa uno dei monologhi sentimentali più belli del nostro cinema.
L’ultimo gigantesco ruolo da protagonista assoluto glielo regala, ancora una volta, Ettore Scola. Che piazza sul tavolo del grande cinema italiano un’altra carrellata (letteralmente) della storia pubblica e privata. Dall’inizio del XX secolo agli anni del fascismo (quando il protagonista Carlo è interpretato da un giovanissimo Andrea Occhipinti), fino agli anni ’80: quando Vittorio diventa il nonno di se stesso. Ma, a rivederlo ancora oggi, fa tutto fuorché l’effetto del film-testamento: è una lezione di recitazione, a memoria di tutte le generazioni.
È un cartone animato? No: è Shakespeare. E allora chi chiamare se non Vittorio, per il ruolo (anche se solo nelle vesti di doppiatore) del patriarca Mufasa? La voce più celebre del nostro cinema (e teatro) dà il giusto peso immaginifico a questo Re Lear della savana. E proietta il mito dell’attore in una nuova dimensione, quasi metafisica: un Gassman in purezza, anche senza bisogno di Gassman.
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