Il contenuto di questa seconda puntata (qui la prima) riguarda le italiane nel cinema internazionale, possibilmente grande cinema. Certo, abbiamo lasciato dei segnali, visibili, ma non così visibili. Le co-produzioni internazionali sono una opportunità e una necessità del cinema contemporaneo. Un sistema che favorisce di fatto gli operatori di settore, siano produttori, registi, tecnici, attori. Alcune nostre attrici hanno dunque avuto occasione di porre il loro nome nel cast di una produzione internazionale. Naturalmente l’“opportunità” andava poi colta e onorata, e lì dovevano entrare in gioco il talento e l’appeal.
L’italiana che più si è fatta notare nell’era contemporanea ha messo, e mette in campo, più l’appeal che il talento. Scrivo di Monica Bellucci. Classe 1964, dunque “artisticamente” matura, ha nutrito quello che ormai è corretto chiamare il suo mito come testimonial di grandi prodotti, come emigrata di lusso in Francia, come moglie di un francese sexy, come ospite d’onore e madrina di mondanità di vertice. Nei molti film internazionali nei quali è apparsa, ha dato un’ottima prova per presenza e discreta per talento in The Private Lives of Pippa Lee (da noi intitolato La vita segreta della signora Lee), accanto a grandi nomi del cinema americano come Keanu Reeves e Winona Ryder.
Nell’88 a Valeria Golino si presentò un’occasione eccezionale, quasi incredibile: essere protagonista di Rain Man di Barry Levinson, accanto a Dustin Hoffman e Tom Cruise. Una partenza clamorosa, ma anche pericolosa. Valeria fu certo corretta nella parte, ma il peso dei due monumenti fu troppo per lei. Avrebbe continuato ad essere una brava attrice italiana. Il grande sogno c’era stato, sarebbe stato una bella memoria e un titolo importante nella filmografia.
Anche Asia Argento, certo privilegiata in molti sensi, ha una sua storia fuori dai nostri confini. Fra i molti titoli, con firme anche visibili come quella di Abel Ferrara (New Rose Hotel, Go Go Tales), merita una citazione Marie Antoinette di Sofia Coppola. Francesca Neri ha recitato per Almodóvar (Carne trémula) e Ridley Scott (Hannibal). Maria Grazia Cucinotta è stata una Bond-girl accanto allo 007 Brosnan in Il mondo non basta di Michael Apted. Ornella Muti può essere considerata della generazione precedente. Si è fatta notare nel Flash Gordon del 1980, vicino a gente importante come Timothy Dalton e Max von Sydow. In chiave di dive del mondo, tutte queste nostre attrici devono essere considerate delle volonterose “occasionali”.
Molti anni fa, esattamente nel 1957, la 23enne Sophia Loren, a Ciampino, saliva su un aereo a elica che l’avrebbe portata a Hollywood. Avrebbe firmato un contratto con la Paramount. Sophia era identificata come l’italiana internazionale, anche se la sua immagine prevalente era ancora quella della pizzaiola nell’Oro di Napoli. Ci aveva messo una buona parola proprio il regista di quel film, Vittorio De Sica. Certo, a Sophia apparteneva un appeal indiscusso e una volontà di ferro. Oltre alle utili amicizie. In pochi anni i suoi partner furono Cary Grant (Un marito per Cinzia), Frank Sinatra (Orgoglio e passione), Alan Ladd (Il ragazzo sul delfino), John Wayne (Timbuctù), Anthony Quinn (Orchidea nera), Willam Holden (La chiave), Clark Gable (La baia di Napoli), Gregory Peck (Arabesque), Marlon Brando (La contessa di Hong Kong), Paul Newman (Lady L). Dunque alcune fra le massime icone hollywoodiane.
Ma all’attrice italiana mancò sempre un punto per essere integrata in assoluto al cinema americano, prevalente nel mondo. Fu sempre la straniera a cui mancava qualcosa. A Greta, a Marlene e a Ingrid non era mancato niente. Non erano state loro ad adeguarsi a quel cinema, vi si erano poste nel centro, lo avevano comandato. Vicino a quei divi Sophia non è mai stata a perfetto agio. Lo era con Mastroianni, lo era con Vallone, accanto al quale vinse l’Oscar, nel ruolo di una ciociara, non di una donna del mondo. Poi, la grande personalità, l’intelligenza e la storia di Sophia ne hanno fatto un modello italiano nel mondo, più che un’artista assoluta del cinema.
Un Oscar “completo” lo vinse invece Anna Magnani, con La rosa tatuata di Delbert Mann, protagonista maschile Burt Lancaster. Contrariamente alla Loren, la Magnani mantenne la propria personalità, che era davvero esclusiva, e prevaleva. La mantenne anche vicino a Brando in Pelle di serpente di Sidney Lumet. La tormentata donna che tradisce il marito col giovane straniero avrebbe benissimo potuto essere la mamma di Bellissima o Assunta Spina. A proprio agio Anna lo fu sempre, dovunque e con chiunque.