Live dalla sua camera a Montreal (si vede il letto sullo sfondo), Xavier Dolan è tornato. Con cappellino da baseball blu, maglietta bianca e il tatuaggio di Albus Silente in bella vista sul braccio mentre gesticola, si mangia le unghie e racconta la sua quarantena in diretta su MioCinema: «Sto abbastanza bene non posso lamentarmi, non sono stato completamente solo. Ho scritto parecchio perché ero molto ispirato. Quello che è cambiato per me, per noi, è l’incertezza, il non sapere quando potremo tornare a girare film senza il distanziamento».
Già, perché pare impossibile coniugare il termine “distanziamento” con il suo cinema, vedi anche l’ultimo film Matthias & Maxime, (dal 27 giugno su MioCinema) storia tormentata di un’amicizia alle soglie dell’età adulta, dove Xavier torna a fare l’attore per la prima volta in un suo film dopo Tom à la ferme: «Ho iniziato a recitare a 4 anni, poi a un certo punto della mia vita il telefono non squillava più e ci rimani male quando da bambino ti abitui a un ambiente così frenetico e pieno di vita come un set e poi smettono di chiamarti. Il mio primo film, J’ai tué ma mère, è nato perché volevo cucirmi addosso una parte. Con il passare del tempo ho capito che se c’è un ruolo giusto per me bene, altrimenti nulla. Non cerco più di impormi, scrivo semplicemente perché ho l’urgenza di raccontare storie».
Nell’ultimo film Xavier interpreta uno dei due protagonisti, Maxime: «Mi sono auto scritturato perché mi vedevo bene nel personaggio e perché volevo recitare con i miei migliori amici storici (che compongono il cast), non volevo perdere quest’occasione. Avevo pensato di scritturare altri per la parte, ma i ragazzi mi hanno detto: “Sei pazzo? Questo è il ruolo perfetto per te”. E oggi sono molto felice di averli ascoltati».
Nel film, come in molte delle opere di Dolan girate in Canada, i protagonisti parlano in québécois, un’evoluzione del francese antico che usavano gli immigrati in Quebec anni fa, ricco di anglicismi: «Il mio Paese è insieme anglofono e francofono, e di conseguenza la lingua è molto aperta, assorbe tutto quello che succede politicamente, culturalmente e socialmente. Non è un francese perfetto, è molto contemporaneo, quasi una lingua da sopravvissuti. Non mi sento più libero quando giro un film in québécois; per me libertà è mettere in scena la storia che voglio raccontare e lavorare con interpreti generosi in modo da trasmettere sullo schermo le emozioni, indipendentemente dal linguaggio».
A proposito di La mia vita con John F. Donovan, il suo primo lungometraggio in inglese che per molti versi è stato un flop, Dolan ha spiegato: «Mi fa ridere che venga definito “americano”: è canadese per molti aspetti, come la produzione e la distribuzione, ha attori americani, inglesi, è stato girato in parte in Repubblica Ceca». Xavier non esclude di ripetere l’esperienza, «ma vorrei che fosse un film “americano” a tutti gli effetti, perché gli interpreti sono molto più a loro agio con una macchina più grande di quella che abbiamo noi in Canada». E ha imparato una lezione: «La prossima volta che mi imbarcherò in un’impresa del genere dovrò esaminare in maniera più completa e precisa la sceneggiatura all’inizio, perché secondo me i problemi emersi dopo stavano tutti lì: io mi identifico molto con il bambino e molto meno in Donovan perché non conosco quella celebrità totale anche tossica, avrei voluto esplorare il personaggio molto di più nella sua psicologia, nella sua malattia, nel suo essere sordo… Ci sono tante cose che abbiamo dovuto tagliare e che avrebbero reso il personaggio più profondo».
Quando durante l’intervista il critico Fabio Ferzetti lo definisce “coraggioso”, Xavier quasi si schermisce: «Non mi considero una persona coraggiosa, le persone coraggiose sono quelle che in questo momento negli USA manifestano nelle strade per difendere i diritti degli altri. Non nego però che nei miei film ho preso posizione, stando dalla parte di chi è diverso per provare ad aprire le menti e i cuori delle persone. E, se questo si può definire coraggio, allora sì, sono coraggioso». E di cosa ha paura Dolan? «Della solitudine, di vivere in un mondo in cui arte e cinema non sono più cose essenziali, di morire prima di aver raccontato tutte le storie che voglio raccontare». Sono uscite interviste in cui diceva di voler fare solo l’attore: «D’ora in avanti voglio solo recitare. Lo trovo più gratificante e più liberatorio che dirigere», ma da quello che dice in diretta, pare che la sua love story con la regia non sia ancora finita. Merito del suo pubblico: «Nonostante questi timori, la mia passione per il cinema e la voglia di incontrare gli spettatori mi fanno superare tutto. Negli anni ho scoperto di avere un filo diretto con il pubblico che mi scrive dopo aver visto i miei film, anche se non sono sempre apprezzati all’unanimità o non incassano tantissimo: mi dicono che magari non sentivano la madre da anni, e dopo la proiezione l’hanno chiamata. Ho il privilegio di condividere emozioni con loro, e per l’artista che sono e che voglio diventare, sapere che le persone mi raccontano quello che hanno nella testa e nel cuore è una cosa fondamentale».
Gli ultimi minuti della diretta Dolan li dedica a chiarire un polverone sollevato in passato, quando nel 2014 a Cannes contestò la Palma queer per Laurence Anyways affermando: “Siamo sicuri che questo premio non ghettizzi ancora di più la comunità queer, non alzi steccati, metta etichette di cui non abbiamo bisogno”? «Sicuramente con un po’ di distanza mi dispiace per quella polemica e, se ci ripenso, capisco da dove venivano le mie parole. Non avevo rifiutato il premio in quanto tale, temevo soltanto che scoraggiasse un pubblico più vasto nel vedere un film che parlava di tematiche queer. Oggi non ho più paura delle etichette, sono un regista queer e ne vado fiero, vorrei che il pubblico si appassionasse alle storie queer come noi ci siamo appassionati alle storie eterosessuali per tanti anni. Allora pensavo quello che molti pensano oggi di Black Lives Matter: “Se smettiamo di parlarne probabilmente il problema non esisterà più”, ero convinto che in quel modo ci mettessimo in minoranza da soli, ma sono passati 10 anni e ora ho capito molte cose. Se smettiamo di parlarne non cambierà mai nulla, quel premio è importante perché è un modo per la comunità queer di difendere i suoi film e i suoi artisti». Il tempo è scaduto, ma c’è ancora tempo per un messaggio di ringraziamento in italiano scritto apposta sul cellulare e pronunciato con l’aiuto dell’interprete. E per ridere leggendo le centinaia di messaggi arrivati durante la diretta: “Il mio più grande problema è che la mia ragazza ti ama”, scrive un utente. “Caro Paolo, je suis désolée“.