Andrea Arcangeli: nella pelle di Baggio
Il numero 10 del ‘Divin Codino’ se l’è scritto sul petto, in questi autoritratti allo specchio scattati per ‘Rolling Stone’. Ma il volto di ‘Romulus’ ha guardato dentro se stesso anche per interpretare il campione forse più incompreso del calcio italiano. E gli è cambiata la prospettiva su tutto
Foto: Andrea Arcangeli
«Appena ci siamo visti c’è stato un momento un po’ alla Sergio Leone, in cui ci scrutavamo a vicenda: Roberto cercava qualcosa di lui in me e io cercavo qualcosa di me in lui». Cronache dal primo incontro tra Baggio e Andrea Arcangeli. Poi il campione più amato del calcio italiano avrebbe detto di Andrea, che lo interpreta nel biopic Il Divin Codino (dal 26 maggio su Netflix): «Credo che abbia affrontato questo percorso con grande passione e gli sono infinitamente grato per il lavoro incredibile che ha fatto, mi rende veramente felice». Arcangeli oggi confessa: «Quello è il pezzo della conferenza stampa che ho risentito più volte, mi fa ancora strano, sì». A quel tempo però nessuno dei due ancora lo sapeva che si sarebbero capiti, riconosciuti, che sarebbero persino diventati amici. La situazione era istituzionale, nello specifico una conferenza stampa in cui Netflix annunciava insieme a Mediaset una serie di progetti, di cui il primo titolo era proprio il film diretto da Letizia Lamartire. «Ero molto imbarazzato e mi sono accorto che lo stesso valeva anche per Roberto», racconta Andrea dal suo camerino sul set della seconda stagione di Romulus. «In quel periodo stavo girando i primi episodi e avevo la barba e i capelli lunghissimi, li portavo sciolti proprio per essere il più possibile diverso da lui. Volevo che la gente dicesse: “Non c’entra niente, non lo può fare”. Speravo di poterlo usare a mio favore per creare il colpo d’occhio quando fossero uscite le foto ufficiali di me nei panni di Roberto». Ha funzionato. Ma ci arriveremo, anche agli intrecci con Romulus e a tutto il resto. Autoscatti black and white che vedete in questa cover story compresi.
Prima però torniamo indietro a un altro momento X, quello della notizia che ogni attore avrebbe voluto ricevere, o forse no. «Non c’è stato un processo fatto di provini, è stata un’iniziativa dei produttori, in particolare di Marco De Angelis, che mi ha chiamato chiedendomi se avessi voglia di interpretare Baggio». Fa una pausa: «Era una roba enorme! Sono abituato da otto o nove anni a questa parte, praticamente da quando faccio questo lavoro, a passare attraverso una serie di audizioni». E invece: «Di punto in bianco è arrivata questa proposta che da un lato mi lusingava tantissimo, perché significava che avevano visto e apprezzato le altre mie interpretazioni, e dall’altra mi spaventava da morire, perché io stesso non avevo avuto modo di testarmi sul personaggio. Tramite i provini, in qualche modo inizi a capire quanto può essere vicino a te, su cosa devi lavorare. Qui era tutto improvviso, prendere o lasciare». Indovinate qual è stata la prima reazione: «L’istinto iniziale era quello di dire no». E chi non. «Quando mi è stato proposto, dovevo ancora iniziare la prima stagione di Romulus, perciò avevo sette mesi di fronte a me in cui non avrei potuto pensare al film su Baggio. Poi significava finire la serie, che è già un’epopea di per sé, e doversi agganciare immediatamente a un progetto complessissimo, per cui lì per lì ho risposto a Marco: “Forse è una follia”, ma i produttori erano così convinti, c’era tanto amore intorno al progetto che mi sono guardato allo specchio: “Chi sono io per dire di no a un’occasione del genere?”. Probabilmente in qualche modo era scritto». A questo punto scherziamo sulla questione della predestinazione: Divin Codino/Arcangeli, tutta roba biblica: «Il problema è che Baggio è buddista», ridiamo. Vabbè, diciamo spirituale, in qualche modo: «C’è stata una coincidenza particolare, e anche per questo poi Roberto non ha avuto il minimo dubbio nei miei confronti: proprio nel periodo in cui il produttore mi ha chiamato, casualmente mi ero avvicinato al buddismo, un po’ per curiosità, perché tante persone vicine a me sono buddiste, come la mia agente, e un po’ perché era un momento in cui avevo bisogno di approcciarmi a qualcosa di diverso, di forte. E due settimane dopo mi chiedono se voglio interpretare Roberto Baggio, una delle massime bandiere buddiste nel mondo! Secondo la mia agente non è stata una coincidenza, ovviamente».
Di Baggio probabilmente saprete già tutto, magari avrete già visto pure il film su Netflix, che sta facendo discutere come capita inesorabilmente ogni volta che si tocca un’icona. Il Divin Codino non è il primo biopic nella carriera del 27enne Arcangeli. Dopo la miniserie internazionale Romeo and Juliet, Fuoriclasse dove interpretava il figlio di Luciana Littizzetto e Neri Marcorè, e Tempo instabile con probabili schiarite al fianco di John Turturro, il primo ruolo da protagonista è arrivato con The Startup – Accendi il tuo futuro, il film di Alessandro D’Alatri sulla storia di Matteo Achilli, una sorta di “Mark Zuckerberg italiano” che si è inventato un social network in grado di classificare gli iscritti in base al merito: «Il primo film da protagonista è un po’ come la prima volta che fai l’amore con una ragazza, perché è bellissimo però hai anche un sacco di ansie», mi aveva detto Andrea in un’intervista precedente. Certo, la responsabilità di “diventare” Baggio è tutt’altra pratica: la somiglianza c’era, Arcangeli poi ci ha messo una dedizione impressionante, una determinazione ferma ma gentile e un talento cristallino. Chiacchieriamo proprio mentre Il Divin Codino debutta su Netflix, che giornatina: «Il film diventa di dominio pubblico e una parte di me non lo vorrebbe, è stato un processo talmente lungo e complesso sia dal punto di vista fisico che psicologico. È stata un’esperienza “mia”, così intensa che vorrei nessuno potesse cambiarne la percezione che ho. Però è giusto, è anche un po’ il prezzo da pagare per vivere queste cose. Il film esce e posso condividere l’esperienza con altri, per cui magari è solo un valore aggiunto». Intanto però stare su un set intensissimo come quello di Romulus aiuta: «Per fortuna ho altro a cui pensare, oggi devo anche recitare un monologo lunghissimo in protolatino, non c’è spazio per l’agitazione», sorride.
Ancora prima di interpretare il principe Yemos nella serie by Matteo Rovere che remixa gli elementi storici e mitici della fondazione di Roma, Andrea è stato tra i protagonisti di Trust, la serie tv sul rapimento Getty del premio Oscar Danny Boyle, che «rideva fortissimo durante il provino, non era proprio facile rimanere concentrati». Arcangeli interpretava Angelo, il traduttore del clan dell’ndrangheta che teneva in ostaggio il giovane Paul III, l’unico in grado di parlare inglese e che quindi faceva da tramite con il ragazzo. Vulture scriveva: “È bello quando una serie piena di stelle come Trust ti permette anche di scoprire un nuovo talento: è il caso di Andrea Arcangeli”. «È stato un risveglio assurdo, perché la puntata era andata in onda solo in America. Una delle cose più belle di Trust costituiva anche un rischio: era una serie piena di star e un ragazzino di 25 anni in mezzo a tutti quei leoni rischiava di passare inosservato. Ma poi ho letto un’altra recensione: diceva che da quegli episodi “emergevano due personaggi in particolare: quello di Hilary Swank e quello di Andrea Arcangeli”. Ero allibito, è stato stupendo».
Altra info di base su Andrea: in realtà lui voleva fare l’architetto. Pare quasi surreale, a vedere una clip che ha postato sul suo Instagram dove, appena ragazzino, piazza una performance da scream king: «È un video fatto da un amico che adesso è diventato regista di documentari, eravamo piccoli e condividevamo la passione per il cinema», ricorda quando gliene parlo. «Inevitabilmente usciva tutto il mio lato istrionico: quelle immagini, con lui che mi riprende attraverso quei movimenti di macchina, lo zoom ecc. erano un segnale del nostro destino di regista e attore», ride. «Per quello mia mamma mi ha spinto a fare teatro, perché c’era qualcosa che non si poteva ignorare».
A proposito di chicche: se cercate sul web The Tube degli Edwood, vi uscirà il videoclip del brano e riconoscerete un giovanissimo Andrea Arcangeli in una situazione che fa molto Stranger Things: «Ma dove l’hai trovato?», mi chiede. «È una perla, è la mia interpretazione migliore», ridacchia. «Non facevo ancora nemmeno la scuola di teatro, un’amica di mia madre conosceva i ragazzi che giravano il video. È un esordio di cui vado molto fiero, anche perché secondo me il pezzo è una figata. Aspettavo giusto l’occasione per rivendermelo con qualcuno. E non potevate che essere voi di Rolling».
Proviamo a individuare nel suo percorso tre momenti cruciali, come accade nel biopic su Baggio: «Non è facile, perché finora è stato tutto estremamente graduale, ed è la cosa di cui vado più fiero. Ho ottenuto una piccola conquista dopo l’altra, e ci sono state anche tante delusioni e progetti che non sono andati in porto», premette. «Ma sicuramente la prima fase è stata il contatto con la recitazione, con la possibilità di farlo non come professione ma come esperienza durante la scuola di teatro, spinto da mia madre che sentiva che mi poteva aiutare a crescere, quando magari vivi delle difficoltà, hai tanti dubbi e hai bisogno di tirare fuori un po’ di cose, le sono molto grato. Poi un secondo step in cui ho iniziato a farlo di lavoro, senza però pensare realmente che potesse esserlo. E poi è arrivata una terza fase in cui mi sono detto: “Ok, forse io sono questo, devo esplorare il resto della mia vita attraverso questa chiave”. Per cui il terzo momento della mia carriera è solo l’inizio di un processo di scoperta, vedremo dove mi porterà».
Il desiderio è quello di diventare un interprete «non per forza popolare, ma riconosciuto come simbolo di qualità». Certo, Il Divin Codino è senz’altro un’occasione pop, ma Andrea privilegia altri aspetti: «Ogni progetto mi porta sempre una difficoltà in più, una sfida in più, e questo mi spaventa da un lato ma dall’altro mi tiene sempre vivo, mi costringe a non abbassare mai la guardia». Di scelte safe non ne ha mai fatte: «E avrei potuto, tante volte. Non sono un attore navigato che si può permettere di fare quello che vuole, però spesso mi sono preso dei rischi calcolati anche insieme ai miei agenti, per osare e non cedere a delle sicurezze. Ma non è stata una linea prestabilita: a un certo punto, mi sono accorto che tutti gli artisti che stimo di più hanno fatto questo tipo di percorso». Tipo? «Daniel Day-Lewis o Frances McDormand, che ha appena vinto il suo terzo Oscar e raccontava in un’intervista che si è dovuta forzare a fare pochissima attività stampa per non cedere alla facile commercializzazione della sua immagine. Queste sono scelte, significa rinunciare a un certo tipo di opportunità, a un certo tipo di fama e anche di guadagno. Però poi sono persone, come anche Joaquin Phoenix o Sean Penn, che hanno contribuito a elevare questo mestiere, perché purtroppo è anche un lavoro costellato di personaggi che non lo onorano davvero, rischiano di farlo diventare quello che a loro è più congeniale: mega poster, mega soldi, tanti follower. Ed è rischioso, bisogna rendere omaggio alla natura artistica di questo mestiere, che rischia di perdersi. Non mi atteggio a paladino, ma ammiro chi fa queste scelte e penso: voglio provarci anche io, magari non ci riuscirò ma, come insegna Baggio, voglio passare la mia vita a impegnarmi per tentare». In altre parole: «I rigori li sbagliano solo quelli che hanno il coraggio di tirarli» (cit.).
La sera precedente al primo ciak del Divin Codino è stata catartica per Andrea: «Mi avevano proposto il ruolo a maggio 2019, poi abbiamo girato il film a luglio 2020, per cui era un anno che avevo tutto nella testa, ed era da gennaio che ci lavoravo. Durante la preparazione, in qualche modo hai la sensazione che forse il film non inizierà mai. E invece, dopo tanti mesi, non c’era più modo di tornare indietro, e a quel punto speri di aver dato veramente il massimo, ti guardi alle spalle e ti chiedi: “Ho fatto tutto quello che potevo?”. Dentro di me sapevo che era così». Però quella era la notte prima degli esami: «Avevo bisogno di sentire una voce rassicurante e, in maniera quasi contraddittoria, ho chiamato Roberto. Non per farmi dare qualche consiglio dell’ultimo secondo, ma perché sapevo che avrebbe trovato le parole per tranquillizzarmi. Lui ne ha vissute tantissime di vigilie, di momenti fondamentali, ed è stato incredibile». C’è una cosa che Andrea ha avvertito fin da subito e che forse l’ha salvato: «Roberto non mi ha mai, MAI giudicato, non mi ha mai chiesto di fare qualcosa nello specifico, non mi ha mai indirizzato verso un aspetto… Si è completamente fidato di me, che fondamentalmente non ero nessuno. E questa è una cosa umanamente stupenda. Io lo sentivo, avevo soltanto bisogno di sentirmelo dire un’ultima volta. Poi ho dormito sereno. E il giorno dopo ero sul set, pronto a tutto».
Quando Baggio sbagliava il rigore a USA 1994, Andrea aveva un anno: «Non ho avuto la possibilità di vivermi quel momento davanti alla tv, o magari sì: forse ero neonato nella culla mentre mio padre tifava, è molto probabile». Arcangeli ha cominciato ad avvicinarsi al calcio quando Baggio stava finendo la sua carriera: «Però questo mi ha dato il distacco necessario dalla storia per poterla raccontare senza pregiudizi e senza filtri, potevo lasciare che gli altri mi riempissero delle loro esperienze di Roberto, perché lui ha rappresentato qualcosa di grande ma di diverso per ognuno, per cui mi interessava capire che cosa lo avesse reso così immortale tra le persone». Baggio l’antidivo, ma allo stesso tempo l’uomo costantemente sulla bocca di tutti: «Ha lasciato qualcosa che andava oltre i gesti atletici e la capacità in campo. Mi sono scervellato per capire come un essere umano che fondamentalmente viveva per giocare a calcio abbia rilasciato così poche interviste e abbia tenuto la sua esistenza così protetta dall’esterno. È la rappresentazione fisica dell’amore per quello che si fa e per quello che si è: avere passione, ma non tradire la persona che sei, non scendere a compromessi. E inevitabilmente questo arriva: lui è sempre stato una persona vera, nonostante tutto».
A sentirlo parlare, è chiaro che questo film per Arcangeli è stata una di quelle esperienze che cambiano la vita e la prospettiva, in cui è stato centrale non solo e non tanto Baggio il campione, ma anche e soprattutto Roberto la persona: «Si è reso immediatamente disponibile per ogni cosa, aveva quello stupendo impaccio di chi non sa bene come comportarsi e allo stesso tempo io non avevo un manuale su come interpretare Roberto Baggio, per cui eravamo in qualche modo insieme sulla stessa barca, e questo ci ha resi molto complici. A un certo punto, leggendo la sua autobiografia, ho fatto un parallelismo tra la sua vita e il mio impegno su questo film. Scriveva più o meno così: “Avevo degli obiettivi e uno di questi era vincere il Mondiale, cosa che poi non è avvenuta. E io col tempo poi ho capito che in realtà l’obiettivo che mi ero prefissato forse non era quello giusto per me. Dovevo sentirmi felice e realizzato semplicemente sapendo di aver fatto tutto quello che potevo per arrivarci, poi la vita mi ha portato altrove, ma non niente da recriminarmi, ho dato il massimo e sono felice di questo”. Quando l’ho letto, improvvisamente tutto ha acquisito un senso». Una nuova forma mentale che aiuterebbe chiunque, soprattutto chi lavora nell’industry cinematografica: «È la natura di questo mestiere, che ti promette costantemente qualcosa, tu la ottieni e vuoi di più, miri sempre a un obiettivo, un riconoscimento, qualcosa. E invece è proprio nel mentre che tu vivi la tua esperienza. Roberto mi ha dato una lezione fondamentale. Per questo il lavoro su questo film, su questo personaggio, trascende l’uscita e l’accoglienza del film in sé, io sono felice e basta. A prescindere».
E arriviamo agli scatti: sì, sono bellissimi. E sì, li ha realizzati per noi lo stesso Andrea: «A me piace molto anche stare “dietro”, per quello amo scattare, è forse il momento in cui mi sento più tranquillo e rilassato. Sono io che posso guardare gli altri, sono nascosto, in qualche modo non esisto. Non lo so, forse mi serve per controbilanciare la pressione che sento quando ho gli occhi addosso». Classe 1993, a fare i conti sugli anni Arcangeli fa parte della generazione dei selfie, ma chiaramente queste fotografie si ispirano piuttosto all’immaginario di un Anton Corbijn. Un riferimento quasi antigenerazionale, e anche una consapevolezza non comune nel percepirsi, nel guardarsi: «Questa opportunità di scattarmi da solo per voi è stata assolutamente inedita, perché è una cosa che non faccio mai, sono sempre fuggito anche dall’idea del selfie come lo intendiamo oggi, credo sia impossibile trovarne uno mio sui social». E quest’idea mette insieme i due aspetti: «Lo stare dietro la macchina fotografica, ma allo stesso guardare me stesso. L’attore, che viene sempre guardato da un altro e diretto da un altro, si guarda da solo. Ed è qualcosa che solo pochi sono stati in grado di fare, anche al cinema, vedi Nanni Moretti, Woody Allen… Mi incuriosiva, è stato un po’ un esperimento, non so bene cosa sia uscito…». Giudicate voi.
La fotografia è essenziale nella vita di Andrea, dare un’occhiata ai ritratti che scatta (ce n’è uno recente del collega Eduardo Scarpetta) per credere: «Lo è diventata, ma è una passione nata per caso, quando il mio padrino di cresima mi regalò una macchinetta fotografica. Poi è riesploso tutto qualche anno fa, quando ne comprai un’altra per farmi dei self tape, dei provini da mandare anche all’estero. Mi sono accorto che non potevo girare senza, che mi sentivo male se camminavo per la città e mi capitava a tiro una situazione che non potevo scattare, per cui da quel momento è diventato il mio modo di guardare il mondo. E mai come attraverso la fotografia sono riuscito a capire delle cose di me che mi fanno stare bene, che mi fanno sentire in pace con me stesso». La fotografia diventa un posto sicuro in cui rifugiarsi: «Forse perché faccio l’attore ma ho terribilmente paura di fare l’attore, rischia di essere anche una condanna se non sai come affrontarlo. Per non farsi schiacciare, ognuno deve cercare il suo modo di convivere con questo bombardamento costante di idee, immagini, suggestioni, pressioni. E io devo trovare il mio».