Christos Nikou, nuovo cinema greco | Rolling Stone Italia
Interviste

Christos Nikou, nuovo cinema greco

Dall’aiuto regia di Yorgos Lanthimos per ‘Dogtooth’ alla sua opera prima, ‘Apples’: il regista greco, classe 1984, ha aperto la sezione di Orizzonti con un debutto folgorante. L’abbiamo incontrato

Christos Nikou, nuovo cinema greco

Aris Servetalis in 'Apples'

Foto: Bartosz Swiniarski

C’è la pandemia pure al cinema. No, nessun contagiato (almeno per ora, e facciamo i dovuti scongiuri). Apples, il folgorante esordio del greco Christos Nikou (classe 1984, già aiuto regista di Yorgos Lanthimos in Dogtooth), ruota attorno a un’epidemia, sì. Solo che il virus in questo caso non attacca i polmoni, ma la memoria. Le persone soffrono improvvisamente di amnesia, vengono portate in ospedale e, se non possono essere riconosciute tramite documenti o i propri cari, hanno due scelte: restare in stand by nella struttura a tempo indeterminato oppure iniziare un percorso di recupero per costruirsi una nuova vita. C’è il senso del weirdo lanthimosiano, ma anche la malinconia di Charlie Kaufman. Eppure Apples (film di apertura di Orizzonti a Venezia 77, che arriva dal 31 marzo in esclusiva su MioCinema) è qualcosa di nuovo: è il nuovo cinema greco. Segnatevi il nome di Christos Nikou. Noi intanto l’abbiamo intervistato. E non lo nascondiamo: alla Mostra è stato di gran lunga uno dei nostri preferiti.

Il regista Christos Nikou. Foto: Christos Nikou

Hai lavorato al film durante il lockdown o la pandemia nel film è una coincidenza?
L’ultimo giorno prima del lockdown in Grecia abbiamo fatto il test screening del DCP (l’equivalente digitale della pellicola per la proiezione dei film nei cinema, nda), quello è stato il momento esatto in cui abbiamo finito il film. Siamo usciti dal cinema, abbiamo guardato i telefonini e abbiamo realizzato che era tutto chiuso. È una coincidenza. Sì, parliamo di una pandemia come quella che stiamo vivendo ora e credo che il pubblico riconoscerà degli stati d’animo familiari nel film: solitudine, isolamento, senso di perdita e un po’ di incertezza sul futuro. Ma si parla anche di ricominciare. E speriamo davvero che tutto ricominci, anche nelle nostre vite.

Hai paura che le persone guarderanno Apples sotto una luce diversa a causa di quello che sta succedendo?
No, credo che il tema della memoria sia senza tempo, quindi non penso che il pubblico lo percepirà in maniera differente. O almeno, lo spero.

Perché hai deciso di parlare di amnesia, del tema della perdita della memoria? Credi che sia uno dei problemi della nostra società? Ci stiamo dimenticando della storia, e forse ci siamo già dimenticati anche del lockdown…
È vero (ridacchiamo). Sì, ho avuto l’idea del film otto anni fa, quando ho dovuto affrontare la morte di mio padre… è una storia molto personale. Lui mangiava dalle sette alle dieci mele al giorno e aveva una memoria di ferro. Così ho cercato di tradurre la mia storia privata in qualcosa di universale. Perché le persone dimenticano così facilmente? Quanto è selettiva la nostra memoria? Se cancellassimo qualcosa che ci ha fatto male, perderemmo tutta la nostra esistenza? Alla fine noi siamo quello che ricordiamo? Tutte queste domande mi ronzavano in testa, ed è così che abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura.

Apples è una distopia, ma il film è tutt’altro che futuristico. È vintage, girato in formato 4:3, ci sono polaroid, audiocasette e tutto il resto: è una specie di ode a tutto quello che è analogico.
Non credo che i film distopici debbano essere per forza futuristici, freddi, distanti: è una cosa che non mi piace, non ne ho mai capito il motivo, perché penso siano molto più potenti quando sono vicini a noi. Abbiamo anche deciso di puntare sulle emozioni, di avvicinarci di più al protagonista e al suo sentire, di percepirlo. E abbiamo voluto fare un film interamente analogico, perché credo che l’uso eccessivo della tecnologia ci abbia resi più pigri, non c’è bisogno di ricordare più nulla, puoi registrare tutto sui device. E spesso computer, tablet, telefoni sono marchiati Apple, che se vuoi è un’altra lettura ironica del titolo. Abbiamo deciso di ritrarre la nostra società in un determinato modo e senza una precisa connotazione temporale, ma prima che la tecnologia diventasse così onnipresente nelle nostre vite. E le influenzasse tanto.

In che modo hai scelto Aris Servetalis (già visto in Alps di Lanthimos, nda) come protagonista?
Avevamo lavorato insieme per il mio corto (Km, nda), ma ammiravo Aris già da prima, perché che è in grado di recitare in maniera estremamente minimalista e il suo linguaggio del corpo è fortissimo. Sai come si dice: less is more. Quando abbiamo girato il corto mi aveva detto: «Scrivi qualcosa per me, e io lo farò». Così ho annotato ogni gesto che compie in scena nel minimo dettaglio, è tutto nel copione, perché sapevo alla perfezione fin dall’inizio cosa poteva fare. L’unica dritta che gli ho dato per il ruolo era di pensare ai film di Jacques Tati e a due lungometraggi con Jim Carrey, Se mi lasci ti cancello e The Truman Show, di provare a fonderli. Qualcuno mi ha detto che ricorda un po’ Buster Keaton… non so, magari è la combinazione di quei riferimenti. Aris è una persona piena di inventiva, è davvero l’attore perfetto con cui lavorare.

Foto: Bartosz Swiniarski

Ci sono un paio di sue sequenze musicali che sono davvero magiche.
Tutto il film ha questo gusto un po’ retrò, amo quel tipo di musica. All’inizio nella sceneggiatura avevamo inserito altre due canzoni per le scene, quella in cui il protagonista canta in auto e quella in cui danza: erano Can’t help falling in love di Elvis e Billie Jean di Michael Jackson. Nella sequenza in cui Aris balla il twist, avrebbe dovuto fare il moonwalk, ma quando abbiamo realizzato che il budget che serviva per i due pezzi era di più di quello che avevamo a disposizione per l’intero film, abbiamo optato per qualcosa che ci piacesse allo stesso modo, ma che fosse un po’ più abbordabile come costi: Sealed with a kiss di Brian Hyland e Let’s Twist Again di Chubby Checker.

Sai che a settembre in Italia è finalmente uscito Dogtooth?
Sì, ho sentito! Ma non era mai uscito prima? Cioè, è arrivato ora, dopo 11 anni?! È folle (ride). Sai che ho iniziato proprio con Dogtooth come aiuto regista? È stata una bellissima esperienza.

Racconta.
Non ho mai frequentato una scuola di cinema, mi sono formato da solo come regista, quando avevo 18 anni avrei voluto studiare ma per varie ragioni non ho potuto. A quel tempo tutti i miei preferiti non si erano formati in accademie e ho pensato: «Se l’hanno fatto loro, posso farlo anche io». Non conoscevo nessuno nell’industria, ho letto la sinossi di Dogtooth su un sito internet prima che iniziassero la preparazione del film: ho chiamato subito la produzione, li ho incontrati e mi hanno preso immediatamente, senza quasi conoscermi. Sono stato fortunato (sorride).

Quanto credi che ti abbia aiutato o magari penalizzato la tua collaborazione con Lanthimos?
Yorgos è un regista dal talento pazzesco, ha un stile unico, anzi, ne ha creato uno. Ammiro moltissimo la sua dedizione – lavora 24 ore su 24, 7 giorni su 7, non ho mai visto nessuno così –, vive e respira cinema. È incredibile quando sia creativo. Ma la mia ispirazione per Apples è arrivata anche da altri registi: Charlie Kaufman, lo Spike Jonze di Her – Lei, il Leos Carax di Holy Motors. Tutti loro hanno creato mondi un po’ surreali, ma che non sono poi così differenti da quelli in cui viviamo e che diventano allegorie. Abbiamo cercato di fare qualcosa di nuovo, anche se nel profondo sai che ci sono cose che hai visto, ti sono rimaste dentro e ti influenzeranno sempre. Ma spero che Apples traccerà e seguirà una sua strada.

Foto: Bartosz Swiniarski

C’è stata la scoperta del cinema iraniano, coreano, cileno, ora è finalmente la volta di quello greco. Perché credi sia arrivato proprio adesso questo momento?
È una domandona, dovremmo analizzare un bel po’ di cose, parlare dei film che sono al centro di questo rinascimento… Tutto è iniziato con Yorgos: ha dato la possibilità a tanti registi greci di essere più creativi, hanno capito che quando puoi mettere in scena esattamente quello che hai in testa, a volte funziona e devi seguire il tuo istinto. È iniziato tutto da lì, e poi molti hanno cercato di individuare un proprio stile con risultati davvero buoni. E poi forse c’entra anche la crisi che ci ha colpiti, non avevamo denaro per fare film: Apples, ad esempio, è costato solo 250mila euro, e gli americani mi dicono che sembra una produzione da 4 o 5 milioni. Quando non hai soldi, sei più creativo e ti ingegni di più. Probabilmente è questo il motivo.

Sia nel tuo film che nel cinema greco più in generale c’è una quota di ironia impassibile e di surrealismo assolutamente unici. Perché credi che qualcosa di così particolare e anche locale (nella migliore accezione possibile) abbia questo tipo di seguito ovunque?
Io sono un po’ ironico e sarcastico… in senso buono (ride). Parte tutto dal mio modo di essere. Non posso parlare per gli altri, ma credo che quando fai un film su una pandemia e su qualcosa di tanto tragico, tu non possa fare altrimenti. La nostra vita è un mix di tragedia e commedia, non sarei mai capace di girare qualcosa che non abbia in sé un po’ di ironia. E questo è il motivo per cui abbiamo deciso di inserire tanti momenti comici.

Come ci si sente a debuttare in un momento così complicato per il cinema nel mondo?
È un grande onore per me e per il mio team essere qui e aprire la sezione di Orizzonti, non vedevamo l’ora perché quando abbiamo finito il film non sapevamo dove avremmo potuto presentarlo. So che è tutto molto strano e complicato, che dobbiamo vedere i film con le mascherine, ma sono ottimista sul futuro perché questo festival è un segno di speranza, è una ripartenza per tutta l’industria, Speriamo che gli altri festival lo seguiranno. Ringrazio il direttore Barbera, che ha deciso di organizzarlo nonostante tutto: dobbiamo combattere per quello che amiamo. Chi lavora in questa industria – io, tu, tutti – facciamo fatica a separare il nostro mestiere dalla nostra vita. Siamo in primis persone che amano andare al cinema, e poi anche persone che hanno la fortuna di lavorare nel cinema, forse lo faremmo pure gratis (ride). Se ami così tanto quello che fai, in qualche modo ne esci sempre.