Daniele Vicari, un altro cinema è possibile | Rolling Stone Italia
Interviste

Daniele Vicari, un altro cinema è possibile

Lo ha dimostrato con 'Il giorno e la notte', il film girato durante il lockdown (disponibile su RaiPlay) che lascia spiazzati e dolenti. E che ci racconta che è cambiato tutto. Ma da 20 anni

Daniele Vicari, un altro cinema è possibile

Isabella Ragonese in una scena di 'Il giorno e la notte' di Daniele Vicari

Foto: Raiplay


Il giorno e la notte. C’è stato un momento, l’anno scorso, in cui facevamo fatica a distinguerli. Chiusi in casa, impauriti, con il segnale orario alle 18 finché l’adrenalina del terrore da pandemia faceva cantare i nostri vicini e qualche volta noi stavamo lì a fare il coro, anche se non lo ammetteremo mai.

Il giorno e la notte è l’ultimo film di Daniele Vicari. Arriva su RaiPlay a una manciata di giorni dal ventennale della Diaz e in fondo non sono così distanti quel capolavoro che lui dedicò a quella violenza di Stato e questo piccolo gioiello indipendente girato (in gran parte) durante il lockdown e che immagina una sospensione dei diritti democratici diversa da quell’agguato infame in quella scuola, ma poi non così tanto. Qui un attentato chiude tutti in casa e in quelle quattro mura esplodono bombe emotive di diversa gradazione. Vicari ha la consueta sensibilità rigorosa nel raccontare umanità diverse e spezzate e ne esce fuori un lavoro che ci lascia spiazzati e dolenti, forse il suo primo vero film d’amore.

Il giorno e la notte (2021) | Trailer del film di Daniele Vicari

«In realtà questo film nasce anni fa», racconta Daniele Vicari. «Mi colpisce da tempo la tendenza fortissima della nostra società a chiudersi, delle persone a rimanere a casa, una claustrofobia autoindotta che dà spesso l’effetto “liberi tutti” durante le vacanze, che non a caso agogniamo sempre fin troppo. Uno stile di vita reclusa acuita dai social che danno l’illusione costante di vedersi, raccontarsi, viversi anche solo scrivendosi. E intanto sono anni che non ci incontriamo mai. Qualcosa a cui io, che vengo dalla montagna selvaggia, non mi sono mai abituato e che mi ha portato da tempo a prendere appunti. Ovvio che quando è arrivato il lockdown, tutto questo è riemerso prepotentemente, e quelle pagine con esso. Mi sono reso conto che dal 2001 – dalle Torri Gemelle e dalla Diaz, appunto – abbiamo semplicemente paura di vivere, di andare in giro. Il Covid, come in tutte le altre cose, è stato solo un acceleratore di processi, ma noi eravamo in lockdown da vent’anni. Siamo passati, in Occidente, da un’idea di società aperta senza punti di ingresso e uscita, famiglie comprese, a una chiusura totale».

E di nuovo viene in mente Diaz, quel concerto di Manu Chao a Genova nel 2001, in cui mondi diversi e ora alternativi si integravano, cantando e ballando, immaginando un altro mondo possibile. «La verità è che la pandemia ci ha trovati cotti a puntino. Un fuoco lento acceso da una sospensione di diritti democratici e riattizzato da un’altra simile. In un caso era impossibile manifestare, nell’altra manifestarsi. In questo senso mi viene in mente la tragedia di Pippa Bacca, artista e performer che con il suo progetto creativo Spose in viaggio voleva attraversare vestita da sposa, per promuovere pace e fiducia nel prossimo, undici Paesi teatro di conflitti armati. Fu violentata e uccisa in Turchia, nel 2008».

Daniele Vicari. Foto: Natale Di Fino

Il parallelismo tra il G8 e il Covid è forte. «Perché si tendono a confondere parole e concetti. Dobbiamo parlare di distanziamento sanitario, sacrosanto, non di distanziamento sociale. Il primo va accettato, anzi promosso, ma se passa il secondo – inteso come separazione psicofisica degli esseri umani tra loro perché pericolosi l’uno per l’altro –, è la fine». E infatti la paura che porta populisti razzisti al potere nasce proprio da questo. Dal ritenere un pericolo chi vuole vivere, cercare la felicità. Venendo da noi e non contro di noi. E così Il giorno e la notte che ai più superficiali può sembrare un racconto del lockdown, diventa terribilmente attuale ora più di quanto lo fosse appena finito di girare e montare. Queste coppie finite, impreviste (che meraviglia Vinicio Marchioni e Milena Mancini, sposati e genitori di due figli nella vita e qui nella parte di possibili amanti, che bella la loro tensione erotica e ironica), ancora da veder fiorire, implose, ci parlano di cosa sono i nostri tempi, luoghi, spazi qui e ora.

Indipendentemente dal coprifuoco. «Il bello di questo film è il coinvolgimento totale di chi lo ha fatto, pur non potendo essere tutti sullo stesso set, anzi». Il direttore della fotografia Gherardo Gossi a Torino, il fonico di presa diretta Alessandro Palmerini a Torino, la segretaria di edizione Maria Vittoria Abbrugiati a Fano, Roberta e Francesca Vecchi, le costume designer, a Modena, l’aiuto regia Giulia Lapenna a Lecce, il fonico di mix Marco Saitta a Napoli, la scenografa Beatrice Scarpato a San Lorenzo, l’attore Matteo Martari a Verona. Gli altri del cast di interpreti divisi tra Casalotti e Pigneto, Prati e San Giovanni, «da dove lavoravo anche io. E la lista potrebbe continuare, coprirebbe tutti i quartieri di Roma o quasi. Ma è servito anche questo, il risolvere il rebus di girare un film così – siamo stati i primi a provarci, non avevamo modelli – non ci ha fatto capire subito quanto di noi abbiamo messo dentro il processo tecnologico».

Vinicio Marchioni e Milena Mancini

La sfida più grande probabilmente è stata quella degli attori. «Li conosco tutti bene, si sono fidati di me e io di loro. Anche quelli con cui non avevo mai lavorato, come Vinicio Marchioni, sono sulla mia stessa linea d’onda da sempre, è solo un caso non aver condiviso un set, d’altra parte in questi anni ci siamo incrociati in tanti progetti possibili. Alcuni loro colleghi non hanno accettato, non era facile realizzare tutto questo, portare in scena tre solitudini: di coppia, individuale e a distanza. Li ringrazio tutti per l’impegno, la responsabilità, la partecipazione. Penso a Giordano De Plano che è stato la nostra cavia, più – che so – di Matteo Martari e Isabella Ragonese che hanno potuto essere aiutati da assistenti perché a quel punto, arrivati a girare la loro storia, il lockdown si era allentato». A tutti loro è arrivato a casa un kit per autoriprendersi. «La scommessa di rendere il linguaggio visivo del film omogeneo nasce dalla scrittura della sceneggiatura con Andrea Cedrola che è arrivata dopo la scelta degli attori (inusuale, ma non per Vicari), così come anche da un accorgimento tecnico, usare tutti la stessa app individuata da Gossi e Palmerini come perfetta per il nostro film e decidere di girare con un solo obiettivo. Comprarlo e mandarlo agli attori ti dava già una continuità e unità di linguaggio, ovviamente poi rifinite in postproduzione. Ma non enfatizziamo troppo l’eccezionalità del coinvolgimento degli attori nel pieno del processo creativo, addirittura diventando operatori di loro stessi, perché ho sempre pensato che con loro vada fatto un percorso comune, non sono oggetti: “dirigere” e “guidare gli attori” sono espressioni che odio. E poi questo film più di altri volevamo scriverlo insieme. Poi, ovvio, tra le ispirazioni dentro c’è il Kammerspiel, Max Reinhardt, quegli interni di vita piccoloborghese che erano al contempo esigenza creativa e produttiva (come il neorealismo, nda), perché imparare dal passato è fondamentale».

Matteo Martari

Ma pure dal presente e dal futuro. Nelle decine di case e uffici del cast artistico e tecnico è arrivato Zoom quando ancora ai comuni mortali era sconosciuto. Nessuna paura per uno che ha saputo cambiare genere spesso, ha osato nel cinema di genere (Velocità massima, Il passato è una terra straniera), in quello ad alto budget (Diaz) e nel cinema e nel documentario d’autore. «E non dimentichiamo i film collettivi, ne ho fatti fin dall’inizio (e anche ora L’ultimo piano, di nove registi della “sua” Volonté, è supervisionato da lui, nda) e indubbiamente questo mi ha aiutato, così come L’alligatore, e al di là dei risultati clamorosi su RaiPlay di quella serie, cosa che indubbiamente ha aiutato a portare questo film su quella piattaforma, la vera Netflix della cultura italiana. Dopo aver fatto molti film, in condizioni diverse, con linguaggi alternativi, ho capito che la regia è una somma di funzioni che, in quanto tali, possono essere delegate se necessario. Un’idea pratica e forse poco poetica, ma realista: guardate la serialità, lo showrunner, giustamente, vale più del regista, e molti produttori si affidano direttamente ai direttori della fotografia».

Il giorno e la notte è un’opera che ha dentro questa profondità di pensiero e di visione così come la partecipazione profonda di chi l’ha reso possibile. Ma è qualcosa che va oltre l’instant movie, è una contaminazione di linguaggi, format narrativi e generi. «Vuole essere per prima cosa una riflessione emotiva, ecco perché non si parla di Covid ma di un attentato che per alcune decine di ore replica la situazione che abbiamo vissuto. Il giorno e la notte si e ci chiede “che fine fanno i nostri sentimenti in lockdown?”. L’abbiamo declinata, questa domanda, nel profumo di commedia della coppia Mancini-Marchioni, nel romance a distanza Ragonese-Martari, nella tragedia familiare di Francesco Acquaroli».

Francesco Acquaroli

Certo, la bellezza e potenza del Giorno e la notte ci dicono che il cinema come lo facevamo fino a inizio 2020, se non è morto non si sente tanto bene. E questo fa un po’ mancare la terra sotto ai piedi. Una rivoluzione del processo creativo e professionale che non è lontano da quello che già sta accadendo nel mondo della pubblicità e che potrebbe creare molti problemi a tanti lavoratori del cinema. «Darò una risposta da stronzi. Non si deve aver paura, spaventarsi dei cambiamenti: se io l’avessi fatto mi sarei fermato nel 1984 quando mi diplomai all’ITIS su qualcosa che l’anno dopo avrebbero dismesso completamente. Nel cinema non cambia nulla da 100 anni, è un lasso di tempo enorme per qualsiasi categoria esistenziale e professionale, soprattutto se si valuta la velocità con cui la tecnologia evolve. Se qualcosa sta morendo non è il cinema, ma solo un modo di farlo e forse di vederlo. Il passaggio dal bianco e nero al colore o, ancora “peggio” quello dal muto al sonoro sono stati degli tsunami. Con tanto di vittime: pensate a quanti attori si sono tolti la vita a causa di quest’ultimo. Non dobbiamo aver paura ma accettare le nuove sfide».

Una cosa che il cinema italiano fa poco e, soprattutto, sempre meno. Ma il regista del Giorno e la notte ci tiene a sottolineare una cosa. «Non è un atto di arroganza il mio, ma di disperazione. Devo aprire una porta sul mio privato, per farlo capire: poco prima della chiusura totale, un virus sconosciuto che colpisce il sistema nervoso, qualcosa di simile a una meningite, mi ha quasi ammazzato. E arrivato il lockdown mi sono sentito perso, visto che ero già recluso da mesi a causa di quest’altro virus. Il mio è stato un atto di vitalismo, una scommessa che è anche un modo per ricordarci tutti di essere cittadini adulti, di saper capire la differenza tra distanziamento sanitario e sociale, è un grido di dolore e di determinazione, un appello al ritornare a vivere. Anzi, per la precisione, a non smettere di vivere. Siamo noi che dobbiamo modificare la nostra esistenza così come dobbiamo fare col cinema. Altrimenti, se succede il contrario, siamo solo schiavi».

E magari finito questo film ripescate Aria, documentario partecipato che la scuola Volonté, di cui il regista è direttore artistico (una scuola di cinema pubblica, un’altra rivoluzione), con i suoi allievi ha fatto per guardare gli italiani rimasti confinati in altri Paesi. «Con un certo orgoglio dico che qui in Italia il documentario partecipato è arrivato quando ho fatto Il mio paese 2.0 e ricordo gli sguardi sconcertati di molti allora. Adesso va più di moda». Altra cosa che a Vicari succede spesso, arrivare prima. Un altro cinema è possibile.