Mentre chiacchieriamo, Sotto il sole di Riccione è ancora, dopo dieci giorni, il titolo più visto su Netflix in Italia. Che effetto fa essere primo in streaming, a uno abituato ai primi posti del botteghino?
Tiro sempre fuori lo sport. Lo sport è quella cosa in cui si cerca di vincere per imparare a perdere. Il cinema è un’altra cosa, è un lavoro. Io ho vinto tante volte, e perso altrettante. Ma se hai imparato a perdere, allora vincere è bellissimo. E vincere su Netflix ti fa sentire come uno che ha fatto tante corse, ne ha vinte tante, ma non ha mai vinto il Tour de France. È una cosa nuova, internazionale, con un modo diverso di fruire il racconto. Sono un sostenitore di Netflix della prima ora, avevo intuito che era una rivoluzione epocale. Malgrado l’età, ho cercato subito di lavorare con loro, e loro sono stati molto attenti a me. Abbiamo fatto Natale a 5 stelle, ora questo, spero che la collaborazione continui. È un modo molto più libero di fare questo lavoro. I condizionamenti ci sono, sapendo che c’è un pubblico globale censuri un po’ quello che chiamano “local”. Però ti apre prospettive entusiasmanti. Credo che Carlo sarebbe molto contento di me, e di quest’ultimo film che nasce dal ricordo di una cosa fatta insieme, Sapore di mare. L’idea che, a distanza di 37 anni, una cosa con lo stesso spirito e la stessa voglia di raccontare una generazione funzioni ancora – e potenzialmente in molti Paesi del mondo –, ecco, questo mi dà grande soddisfazione.
Ci sono condizionamenti, dici. Ma si tira un sospiro di sollievo nel non scorgere nel tuo copione le quote che oggi vanno rappresentate per forza: minoranze etniche, sessuali. “Si deve fare”.
Non bisogna farsi prendere da questa ossessione. Se sei sincero, se racconti la realtà com’è, allora quando è scorretta ti autocensuri. Ma è sbagliato impostare il racconto sul politicamente corretto, che ha un limite enorme: spesso è un fatto moralistico, che cambia col cambiare delle epoche. Un racconto deve durare nel tempo. Se sei una persona seria, civile, morale, attenta, quel tanto che ti serve di politicamente corretto ce l’hai dentro di te.
Quando vi accusavano di essere qualunquisti, se non di destra, voi in Via Montenapoleone piazzavate quella scena magnifica con Valentina Cortese che accetta l’omosessualità del figlio Luca Barbareschi. Per tanti autori “di sinistra” i gay manco esistevano.
Se fai la commedia, sei sempre un quarto d’ora avanti rispetto agli altri, e puoi raccontare la realtà senza fare del pietismo o, ripeto, del politicamente corretto noioso, banale. Mordendo la realtà, riesci a tirare fuori cose che sono in anticipo sui tempi. E anche quando metti al centro temi politicamente scorretti, non è perché sei dalla loro parte, è che sono così in quel momento della Storia. Quando gli italiani usavano il termine “negro”, lo scrivevi anche nelle sceneggiature, per mettere in scena personaggi ancorati a pregiudizi stupidi. A distanza di anni, la critica ideologica diventa ridicola. Ti basti questo esempio: quando già avevamo un grande successo, c’è stato un dibattito nella sinistra italiana storica; molti dei suoi esponenti si ritrovarono a dire che gli autori più popolari di tutti eravamo Carlo ed io, perché raccontavamo le persone che vivono in questo Paese così come sono. Non essersene accorti prima per alcuni fu un errore gravissimo.
Prima della folle discussione sui cartelli davanti a Via col vento, durante il lockdown riguardavo su Amazon certi film di tuo padre Steno – Piccola posta, Letti sbagliati, ovviamente Totò e le donne – e pensavo: per questa roba oggi s’indignerebbero in massa.
È chiaro. Tutto può essere rivisto sotto l’ottica dell’oggi, e del settarismo di alcune persone. Pensa a un altro film che feci con mio padre: La patata bollente. Era una storia tradizionale, ma con un tema fortissimo: l’avversione che aveva la sinistra nei confronti degli omosessuali. Il personaggio di Pozzetto, pur essendo un operaio, faceva una battaglia comica ma molto dura contro questo pregiudizio. Era sempre quel quarto d’ora d’anticipo, forse.
Il tuo film preferito. Dei tuoi, voglio dire.
Ne ho fatti 106, di cui 60 con Carlo e 56 con altri. Come quando c’hai i figli, cerchi di amare quelli che sono più sfortunati: di quelli che ce l’hanno fatta sei molto contento ma, appunto, ce l’hanno fatta. Di tutti i nostri film, quello che amo di più è Il cielo in una stanza, con Elio Germano e Gabriele Mainetti, ha avuto un piccolo successo ma meritava molto di più, anche rispetto a cose che hanno fatto 40 miliardi. Se c’è un film che rappresenta precisamente il modo di raccontare le storie di Carlo e mio, è questo. È un film grazioso, c’è quel tanto di malinconia, di sentimento, di lato buffo, e questa nozione del tempo in cui si torna sempre, si va sempre a scavare.
L’8 luglio sono stati due anni senza Carlo.
Abbiamo vissuto tutta la vita insieme, non è che la separazione fisica ti separa mentalmente, lui è sempre qua, abbiamo un contatto continuo, gli chiedo ad alta voce: tu come lo faresti? C’è un senso di mancanza totale, ma perché con lui se n’è andato un tipo di mondo corretto, più semplice, che se la tirava poco, che metteva grande tenacia nel lavoro, un mondo di grande scetticismo ma anche di grande ottimismo, un mondo gentile. Questo mi manca moltissimo. Io c’ho una certa età e non c’ho tutta questa forza, ma cerco di mantenere questo suo modo allegro di fare il cinema, con una visione sempre dall’alto, senza crederci troppo, senza pensare che hai fatto chissà cosa. Poi, se quella cosa deve venire fuori, lo farà da sé.
Il vostro quarto d’ora d’anticipo ha fotografato anche il mondo ignorante, cafone e scroccone in cui oggi ci specchiamo sui social.
Ma pure l’altissima borghesia, le donne… Certo, i nostri eroi venivano quasi sempre dalle classi popolari, pensa a tutti i film che abbiamo fatto con Diego. La verità è che con Carlo ci piaceva fare i generi. Siamo stati fortunati con la commedia, ma abbiamo fatto di tutto. I thriller come Sotto il vestito niente, che resta uno dei nostri film preferiti. I mélo: Via Montenapoleone e I miei primi quarant’anni. I film politici come Tre colonne in cronaca, persino i cappa e spada, le favole come Piccolo grande amore, i film comici puri tipo Le barzellette. E la commedia all’italiana vera: Il pranzo della domenica. Pensavamo al pubblico che doveva uscire di casa, non abbiamo mai avuto l’urgenza di raccontare qualcosa per forza. Siamo partiti dall’idea che chi fa cinema deve guardare la realtà, e poi metterci un po’ di stile, che è la cosa più importante. Prendi il mio amico Ennio Morricone: di grandi musicisti ce ne sono tanti, lui aveva lo stile, sentivi due note di Morricone e capivi che era lui. Se uno riesce piano piano ad affinare un piccolo stile, è lì che ha vinto. Vedi un film e dici: questo è Risi, questo è Monicelli. Se dicono «questo è un film dei Vanzina», allora mi fa piacere.
Definisci vanziniano.
L’aggettivo vanziniano non esiste. Siamo nati in una famiglia che ha cominciato prima di noi, con papà ho lavorato tanto, ci ho scritto tanti film tra cui Febbre da cavallo, che è uno dei suoi migliori. Papà mi diceva sempre: ho iniziato con Totò, e l’Italia di Totò non finisce mai, continua. E che cos’è? È questo scarto tra le cose buffe e la realtà burocratica, di parvenu, di gente di potere che gli si para davanti. L’Italia vanziniana è la stessa cosa, personaggi che entrano in una storia e si scontrano con le buffonerie di un Paese ancora un po’ retrogrado. Tu lo guardi e dici: non è possibile che si prenda sul serio. Eppure. È un’Italia fragile, piena di debolezze, che però s’approfitta degli altri. Ma gli altri – soprattutto quando sono napoletani – la sfottono. E vincono.
Gli attori dei Vanzina.
Troppi. Quello che mi ha proprio stupito è Volonté. Tutte le volte che ci lavoro, sono sorpreso dalla bravura di Gigi Proietti. Così come rimasi incantato da alcuni attori stranieri: Rupert Everett, Elliott Gould, Leslie Nielsen, David Warner, Michel Serrault. Mi incantò moltissimo Monica Vitti, quando scrissi alcune cose per lei. E Faye Dunaway. Stefania Sandrelli ha fatto due film con noi, e che le vuoi dire. Virna Lisi. E Valentina Cortese, che hai citato: era una grande amica di papà. Ci sono degli attori che giustamente stanno lì perché stanno lì, c’è poco da fare. E poi i comici. Christian, Massimo che è diverso, è un attore molto istintivo. Salemme è molto bravo, e il primo Amendola, Ricky Memphis, Carlo Buccirosso. Li amo tutti.
Sei sempre dalla parte dei giovani. Dunque non è vero che sono più cretini.
Affatto. Sono molto condizionati dalla struttura sociale, hanno paura dei sentimenti, di essere diversi anche da loro stessi. Sono tutti uguali pure nella bellezza, gli mette ansia differenziarsi, uscire fuori. Li guardo e penso che sono molto fragili.
La musica dei Vanzina.
Prima ancora di immaginare i film, con Carlo pensavamo alla colonna sonora. Io avevo studiato pianoforte, da ragazzino facevo pure il pianista, ero un pezzo avanti. Carlo non aveva studiato musica, ma era un conoscitore appassionato, aveva questo culto per i grandi compositori di score americani. La cosa formidabile – e che spesso ha creato problemi – è che, quando finivamo un film, al primo montaggio mettevamo le musiche più belle del mondo. Poi il maestro che doveva comporre quelle vere diceva: mo come faccio a rifare ’sta roba? Se certi nostri film avessero mantenuto la musica delle proiezioni di prova, sarebbero stati cento volte più belli. Ho letto che anche il mio amico Sorrentino scrive pensando alla musica. E Lattuada, con cui ho lavorato, uguale. Pure Gillo Pontecorvo, con cui ho fatto piccole cose pubblicitarie. Mondi diversissimi, il mio e il suo, ma siamo diventati amici anche per questo. Il cinema è immagini, parole e musica. Difatti i tre autori di un film riconosciuti dalla Siae sono il regista, lo sceneggiatore e il compositore.
Dalle foto che ci hai mandato, vedo che suoni ancora.
Mi diverto, suono pop, jazz, quel poco di musica classica che mi ricordo. Uno dei momenti più belli della mia vita è stato quando, tre-quattro anni fa, ho fatto la regia della Tosca, che apriva il Festival pucciniano. Non avevo mai fatto l’opera come regista, sono entrato nel mondo di Puccini, ogni tanto alle prove suonavo io il pianoforte per accompagnare i cantanti. Avrei pagato per farlo, invece mi hanno pagato loro.
C’è una cosa che ancora non ti hanno riconosciuto?
Se ti dicessi di sì, sarei un cretino. Sono stato fortunato, forse c’ho avuto pure un po’ di talento, tutto quello che mi è arrivato mi sta bene. Ho un solo rimpianto a posteriori: mi dispiace che all’epoca, proprio per Sapore di mare, non fu dato a Carlo il David di Donatello per la regia. Poi il tempo gliel’ha riconosciuto, ma ecco, nella carriera di Carlo ci stava bene, l’avrebbe probabilmente spinto a fare cose più d’autore, visto che era ancora all’inizio. Invece ha fatto un’altra scelta, che è stata legittima. Quello era anche un film di regia, aveva un touch, la macchina che si muoveva in continuazione, i primi piani: bastano gli ultimi cinque minuti di Sapore di mare. È l’unico rimpianto, e non è per me. È per Carlo.