«In un momento storico in cui siamo considerati quelli che non servono praticamente a un cazzo, questo festival invece ha deciso di dire: No, noi siamo necessari. Oggi più che mai». Ecco, nella laguna delle tante cose dette su questa Venezia – importanti, certo, ma spesso pure un po’ manierate – Marco D’Amore è l’eccezione. Che va oltre le suggestioni, la retorica, i proclami per arrivare al punto: «È il motivo per cui sono qui al Lido, per dare il mio piccolo contributo a edificare questa necessità. Lo dico anche rispetto a quello che ho osservato durante il lockdown: è attraverso questo mestiere profondo e antichissimo che gli essere umani hanno sempre cercato di intercettare la vita e di comprenderne i misteri. È la ragione per cui esistiamo, oltre la vanità e la superficialità di certe manifestazioni che pure fanno parte del circo».
D’Amore è ospite di Campari per «raccontare la passione di un giovane talento, Luca Nemolato, un ragazzo di Scampia che è partito 10 anni fa per Los Angeles con la sua piccola valigia carica di sogni e che è riuscito ad affermarsi nel meraviglioso mondo degli effetti speciali». Tanto da ottenere collaborazioni incredibili, tra le quali quella con Guillermo del Toro per la creazione del mostro acquatico della Forma dell’acqua, che qui a Venezia vinse il Leone d’oro. «Luca è la dimostrazione che questo mestiere non è semplicemente bellezza superficiale e successo patinato, ma che è frutto di sacrifici, di patimento, di voglia di superare i limiti».
La testa di Marco però sta già da un’altra parte: «Fra tre giorni iniziano le riprese di Gomorra, sono carico a pallettoni. Girerò subito le mie prime cinque puntate e poi passerò il testimone a Claudio Cupellini». Come si affrontano le nuove produzioni Covid-proof? «Il set è completamente cambiato, ci sono molte regole da seguire. E quindi o reagisci con uno spirito positivo oppure dopo tre ore sei già abbattuto, perché magari vedi il microfonista tutto bardato che suda come un disgraziato e che però continua a stare lì a fare il suo lavoro. È anche per lui, per le maestranze che hanno fatto i sacrifici più grandi, che devi mettere in campo un’energia doppia».
Si riparte proprio da quel finale instant cult dell’Immortale, opera prima di D’Amore che ha incassato 6 milioni e mezzo e che è allo stesso tempo origin story di uno dei migliori cattivi ragazzi della nostra serialità e tassello irrinunciabile di Gomorra: «Abbiamo finito così, e quello sguardo tra Ciro e Genny è il nostro nuovo start, ovviamente in una maniera del tutto sorprendente e inaspettata, com’è consuetudine in Gomorra». Sarà che questa quinta stagione, di cui è direttore artistico insieme a Cupellini, Marco l’ha seguita dal principio, sarà che ci lavora h 24 ormai da più di un anno, ma «lo dico forse peccando di vanità e andando oltre la mia proverbiale superstizione: potrebbe essere essere davvero la stagione più bella. È una sintesi di tutti i mondi che abbiamo raccontato, arriva all’osso dei rapporti più importanti che sono rimasti e mette in campo uno sforzo produttivo incredibile in tempi come questi, in cui spendi tantissimo per garantire la salute di chi lavora».
Sarà l’ultimo atto per la nostra serie crime più shakespeariana? «C’è sicuramente il desiderio di concludere un percorso. Gomorra riesce a intercettare i cambiamenti al suo stesso interno. È successo nella prima stagione nel rapporto tra Ciro e Genny, che era scritto in una maniera completamente diversa, è accaduto rispetto ad alcune morti eclatanti, ma anche per alcune strade che si sono allungate. Personalmente penso che il percorso sia finito, che sia giusto e dignitoso dare una grande conclusione. Ed è quello a cui stiamo lavorando. Poi possono esserci delle sorprese, ci sono dei ragionamenti che non competono a me ma ai produttori, ai broadcaster… però magari questo annus horribilis potrebbe concludersi con una meravigliosa fine di Gomorra, di quelle che lasciano tutti senza fiato».
Nel frattempo, dopo il successo fulminante del suo debutto al cinema, a Marco sono arrivate sceneggiature su sceneggiature, che però non hanno nulla a che fare con L’Immortale: «Ne sono molto contento, perché forse ho fatto finalmente un po’ breccia e lo sguardo degli altri su di me è diventato più aperto. Erano davvero cose molto differenti: c’era chi chiamava per propormi una regia, chi un ruolo, chi una co-produzione, chi per scrivere. E misurarmi con discipline diverse è sempre stato un mio grande desiderio. Che piano piano si sta realizzando». E una futura Venezia da autore? «È il sogno di ragazzino, che in parte si è avverato ogni volta che ci sono venuto da attore, ma fare quel tappeto rosso con una storia che ho voluto raccontare beh, sta al centro del mio mosaico ideale. A Napoli si dice: Stamm sotto ‘u cielo».