Al terzo film, ma con una lunga carriera teatrale alle spalle, Phyllida Lloyd arriva a Roma in selezione ufficiale (e in collaborazione con Alice nella città) con un lavoro radicalmente diverso dai precedenti. La vita che verrà – Herself (in sala in Italia dal 25 novembre) non ha la gioiosa vitalità sopra le righe di Mamma Mia! né la rigida solennità del ritratto di Margaret Thatcher in The Iron Lady, ma in qualche modo pesca in entrambi. «Diciamo che nel mio percorso è forse il primo a essere atipico, diverso, mentre il secondo e quest’ultimo sono più coerenti con esso. Volevo un film a basso budget, che mi desse maggiore libertà d’azione e mi permettesse di esplorare altre modalità espressive. Così mi sono imbattuta nella sceneggiatura di Clare Dunne e ne ho sentito subito la forza, così come il suo coinvolgimento». Impossibile non farlo, impossibile rimanere insensibili di fronte a questa storia che tra le quattro pareti ambienta una doppia tragedia: quella di un matrimonio fallito per la violenza feroce del marito – la scena che cambia la vita della protagonista e dei figli è dolorosa, impietosa nel raccontare cos’è la crudeltà fisica domestica e dove nascono le radici di un femminicidio – e quella delle abitazioni negate, dell’emergenza casa.
La regista rispetta la sceneggiatura, che ha una profondità e una leggerezza inusuali per questo tipo di film, dandole la sua capacità di comporre ritratti femminili atipici e potenti. E fuori da ogni ideologia. «Nessuna ideologia, è vero. A cosa serve quando devi parlare di un’esistenza, di sentimenti? Volevamo raccontare una donna, forte e fragile insieme. Desideravamo portare sullo schermo la sua quotidianità, le sue incertezze, non farla dominare e schiacciare dal dramma che vive». E risulta subito evidente da una colonna sonora che spiazza, anzi costituisce il filo a cui si appende la storia, portandola facilmente da toni cupi, disperati a momenti di allegria quasi goliardica, di femminilità solare, di leggerezza improvvisa. «Sì, la nostra è stata quasi una caccia. All’inizio pensavamo a una musica che sottolineasse i momenti cruciali, più classica, che portasse ancora più dentro ciò che volevamo raccontare, ma a un certo punto con Clare ci siamo rese conto che doveva essere più diegetica, più vicina alla protagonista, che è una donna di 30 anni, di bassa estrazione sociale e che fa parte della classe operaia. Ecco così che attorno a scelte più raffinate arriva musica irlandese poco conosciuta, ma con una personalità forte. Fino a Chandelier di Sia, che sicuramente avrà fatto storcere il naso a qualcuno, ma volevo proprio che facesse quell’effetto: disorientare lo spettatore, non dandogli ciò che può aspettarsi, ma aiutandolo anche a cambiare prospettiva rispetto al racconto».
Lì, come in altri momenti, capisci che Sandra non è una vittima ma una donna, quando sorride e gioca con le figlie è una madre felice, non una moglie abusata, perché un carnefice può farti del male ma non può e non deve cambiare la tua identità, ingabbiarti in ciò che hai subìto e impedirti, con una seconda violenza ancora più subdola e permanente, di essere chi sei. E soprattutto chi vorresti essere. E puoi urlare la tua rabbia felice (o viceversa) anche così, anche con una canzone pop che nulla sembra avere a che fare con la tua storia, semplicemente perché ti risveglia anima e pancia. La vita che verrà – Herself è questo, un’opera rigorosa e potente, senza fronzoli e vezzi registici, ma anche lo sguardo su un’esistenza ostinatamente normale, in cui un’attrice che finora abbiamo colpevolmente ignorato riesce a prodursi in un’interpretazione straordinaria, sfaccettata, in cui lo sguardo dolente, quasi sconfitto, può in un attimo lasciare spazio a un sorriso aperto, irresistibile. «Ha recitato molto per me Clare, con Harriet Walter nelle mie regie teatrali ha vestito i panni di uomini, donne, sono state una coppia, di marito e moglie e di sorelle, di amiche. La stimo, le stimo enormemente. Ma ora, al cinema, l’ho vista crescere ancora, e spero che il mondo possa apprezzarla come faccio io da anni, notando le sue enormi qualità, e che il film la aiuti a far arrivare questa straordinaria performance a più persone possibili. Quando rivedo quello che abbiamo fatto sono orgogliosa di lei, quasi come una madre». E lo dice chi ha diretto, per ben due volte, Sua Maestà Meryl Streep.
Segno di un rapporto stretto, fortissimo tra regista e protagonista, unico modo per trovare la felicità e la fluidità di un’opera che è emotiva e civile, che sa essere idealista senza essere dogmatica, che sa essere immediata e semplice, ma senza rinunciare alla complessità delle tragedie sociali che racconta. Non si inventa nulla, quest’autrice, a livello visivo e di scrittura. Semplicemente perché non serve.
E fa sorridere la magia del cinema, che permette alla stessa cineasta di celebrare Margaret Thatcher, la Lady di Ferro che ha affamato il Regno Unito e l’Irlanda in particolare, aprendo le porte a un capitalismo avido, privo di scrupoli, violento nel suo negare diritti e ignorare scioperi; e poi, con il lungometraggio successivo, di raccontarne le vittime. «Hai ragione, ho raccontato prima il lato umano di una donna che ha rappresentato la carnefice di una generazione di lavoratori, e ora guardo alle vittime di quel sistema. Lei era il sintomo dell’inizio di una globalizzazione che ci ha tolto più di quanto ci abbia dato. E che porta anche a ciò che mostro in Herself».
Alla storia di Sandra, a cui hanno tolto la felicità di un amore e che lotta per avere una casa con la sua famiglia; una casa in cui tornare anche ad amare, magari. Ma non è una semplificazione estetica e narrativa, questa, quanto la volontà di andare oltre l’opera di denuncia, verso una storia di vita. La senti, spesso fuoricampo, la difficoltà di sopravvivere nella precarietà, come la tensione di un amore finito che non si arrende. La regista lo fa nei dettagli, ad esempio con un ottimo attore che interpreta il marito di Sandra, che al suo personaggio non fa sconti, ma che si sforza pure di non giudicare oltre le sue azioni. E si diverte, Lloyd, a mostrare anche una grande capacità di trattare i personaggi maschili, lei che in tre film si è concentrata su grandi donne. «Il prossimo progetto dovrebbe essere su un uomo, infatti. Ma poco importa, non conta il genere del protagonista, ma la storia». Spesso, negli ultimi tempi dopati dal politicamente corretto, ce ne siamo dimenticati.