Francesca Mazzoleni è un talento moderno e duttile, è una di quelle cineaste che sanno cosa vogliono e come, ma allo stesso tempo che riescono a interpretare il mondo, inteso come il cinema e la società, per tradurlo in parole, immagini, musiche, suggestioni. Ha solo 31 anni ed è una delle registe più interessanti in circolazione, pur avendo fatto solo due lungometraggi, il generazionale Succede, primo vero esperimento di cinema 3.0 tratto dal bestseller di Sofia Viscardi, per poi virare su un documentario che, se proprio vogliamo provare a etichettarlo, va dalle parti del Cratere, quel capolavoro di Silvia Luzi e Luca Bellino che in parte ha riscritto le regole del genere, per portarlo altrove. E di donne che sanno giocare con la grammatica cinematografica, di autrici che sanno costruire percorsi paralleli e convergenti abbiamo un bisogno disperato, in questi tempi drammatici in cui siamo costretti a riscrivere le nostre vite e le nostre idee, e infine pure le nostre modalità espressive.
Punta Sacra, già Sesterce d’or (il premio principale del festival) a Visions du Réel e ora in concorso ad Alice nella città 2020, è un viaggio nella parte di Ostia più discussa, immaginata, falsata. L’Idroscalo, luogo mitico, iconico e misconosciuto, che nel 2010, per un’ordinanza del sindaco Gianni Alemanno (sì, Ostia è Roma, anche se spesso si finge di dimenticarlo), come ricorda il cartello iniziale del film, vide lo sgombero di quasi metà delle sue case. Chi è rimasto oggi forma una comunità di 500 famiglie che combatte ancora, sulla foce del Tevere, la minaccia del mare, naturale e imparziale, e quella dell’uomo, decisamente più interessata e infame, tra politica distratta e criminalità sin troppo attenta.
Francesca Mazzoleni, quando è arrivata lì, ha capito che quella storia semplicemente doveva essere raccontata e doveva essere lei a raccontarla, come noi che la vediamo ora vogliamo viverla, sentirla, possibilmente trovare un posto nella loro lotta. Che è anche la nostra, anche se ci fa comodo non pensarlo. «Io ho maturato questa necessità in tanti anni. L’idea di fare una cosa lì, la scintilla è stata quando la nonna protagonista, Franca Vannini, mi ha detto “Tutti vengono a girare qui, ma nessuno racconta noi che ci viviamo, la nostra situazione folle e complessa”. E poi in pochi mesi, fortunatamente, tutto ha preso un’impennata e si è creata l’opportunità di fare questo film. È una realtà difficilissima da decifrare, provavo rabbia per i racconti filtrati dal pregiudizio su tutta quella zona, sulle scelte sull’area, e finalmente potevo dire la mia. Entrandoci, ho scoperto una comunità buona, folle, vitale, e ho capito che lì mi dovevo concentrare. Anche per questo li ho frequentati soprattutto durante le feste, elemento fondante della comunità. Ho voluto raccontare la storia di chi vuole difendere le proprie radici, di una rivoluzione lunga sessant’anni». Al centro c’è questa sorta di Anna Magnani, con uscite comiche alla Sora Lella, che è Franca. «La sua parabola mi commuove, ha dedicato una vita a poter restare, a costruire un’eredità morale e rivoluzionaria per figli e nipoti, perché la affianchino e poi continuino la sua lotta». Un nucleo familiare di donne, perché – come spesso accade nei quartieri ai margini, massacrati da politica e società e sfruttamento – sono le donne ad agire e reagire. «Da questa famiglia matriarcale nasce tutto. Lei, loro sono sempre in prima linea con istituzioni, media e politici, sono sempre concentrati sul dire che no, non siamo i “brutti, sporchi e cattivi” che fa comodo pensare».
Punta Sacra ha la forza e la rabbia di Franca, ma anche di chi reagisce in musica, con contenuti e toni forti, ma senza violenza, come Chiky Realeza, un artista potente e raffinato, nonostante i soli 31 anni – «ma suono da 15, ho già visto passare tre generazioni di rapper» –, deciso e affilato nelle parole come negli ideali, capace di unire Victor Jara e Fabri Fibra, «perché Mr. Simpatia mi ha formato, forse non sarei quello che sono senza quell’album, ma ora sono Chiky e non sono neanche simile a nessun altro». E, se deve citare dei modelli, tira fuori «i musicisti di mio padre, quelli che ascoltavamo in famiglia. Il mio flusso di coscienza nasce da Mercedes Sosa, Violeta Parra, gli Inti Illimani, uomini e donne che parlavano alla gente della gente per la gente, ma anche Héctor Lavoe, l’inventore della salsa, Silvio Rodríguez e sì, Victor Jara (che cita in modo ispirato nel film, nda), uno che è morto per le sue idee».
Francesca Mazzoleni il suo documentario diverso e possibile lo ha costruito rompendo le regole del genere, come fa lui con la sua musica. Ecco perché si sono trovati, ecco perché un capitolo del lungometraggio è quasi appaltato a lui. «Lui è un rapper che recupera la tradizione del rap», osserva la regista. «Mi piace molto, la sua musica è tutt’uno con un vissuto pazzesco, ha una rabbia dentro che va a braccetto con una profonda coscienza delle sue radici, vicine e lontane, fuori dalle mode del mondo trap e simili. La sua musica è legata molto ai contenuti, ai messaggi, è la voce di Punta Sacra, di quell’energia rivoluzionaria. In generale, qui la musica l’ho affrontata senza pensare che fosse un documentario, ho voluto spaziare in ogni genere. Quel mondo è pieno di suoni, musica, andava restituita oltre la musica diegetica, con Chiky e il mio ormai sodale Lorenzo Tomio. Con lui sperimento tanto e sempre. Volevo trovare un’anima del documentario anche nelle note, un’anima che fosse vitale e nostalgica fin dai suoni più scarni e sintetici. E poi c’è anche Theo Teardo: so che è un mix un po’ folle, ma credo sia riuscito».
Tutto è terra, sangue e poesia nel film di Francesca e nella vita di Franca. Persino il titolo evocativo ed emozionante. «Un pomeriggio lei mi ha confessato, indicandomi la parte più estrema, sul mare, di quel luogo, che quella era la sua punta, dove piange, urla, riflette nei momenti cruciali della sua vita, in quelli più difficili. La mia punta sacra, ha detto. E così ho deciso che quello dovesse diventare il titolo: in poco tempo è stato adottato dai suoi abitanti, che vogliono far passare il cambiamento di percezione della loro comunità e del luogo in cui abitano sin dalle parole». Non sono solo, come dice Don Fabio, «i guardiani della foce del Tevere», i difensori di un luogo pazzesco, una comunità «ferma agli anni ’50? Sì, ma nelle cose positive, anzi, non sapete quanto mi mancano», ma cittadini moderni del mondo che, come ci confessa l’autrice, sognano di fare di quella fetta di Roma «un villaggio creativo, un borghetto, un Greenwich Village romano. Quanto mi piacerebbe che i miei colleghi sposassero la causa».
Un trasferimento in massa di creativi e creatività, perché la bellezza è rivoluzionaria. «Per questo non ho avuto paura di estetizzare le immagini, so che il dibattito tra etica ed estetica nel documentario in questo momento è forte, ma c’è qualcosa di politico e giusto nel restituire allo spettatore la bellezza di questo posto che tutti ignorano o, peggio, negano. E il cinema documentario ha un formato, è un genere che permette sperimentazione massima, a partire dalle sue poche sovrastrutture produttive e narrative, dai budget bassi e dalla possibilità di essere più istintivi e liberi. Ti consente un modo jazz di lavorare. Non è un film sulle periferie per me, ma sulle energie straordinarie degli esseri umani. Ci sono tanti elementi narrativi del cinema classico in Punta Sacra, e senza snaturare protagonisti e ciò che volevo dire: li ho usati, sì, ma per potenziarli, evidenziarli. Titoli, divisione in atti e capitoli, droni, musiche, modi di muovere la macchina servivano per raccontare ciò che in superficie non si vede, a partire dalla bellezza delle anime degli abitanti. Tutto è vero, ma ho voluto evitare la ripresa della realtà nuda e cruda».
E Chiky Realeza è uno degli alfieri di questa bellezza ruvida e grintosa. «Io vado controcorrente perché penso sia il modo più efficace per essere ascoltato come voglio io. Non è comodo per me far parte della massa, ho voluto mantenere la mia purezza e l’originalità delle mie radici per difenderle in ogni modo, magari in una forma moderna. Senza pareti mentali, senza essere schiavo di un genere, neanche il rap. Ecco perché non ho mai subìto la frustrazione di essere un artista che è stato messo in ombra, che non è esploso quando doveva esplodere: sono convinto che lavorando duro sul mio flusso il mio arrivo sarà migliore, qualsiasi sarà il traguardo. Io volevo arrivare a più persone col mio messaggio, difendendo chi e dove siamo, rimanendo più puro possibile, più me stesso possibile». Lo senti, sembra suonare anche solo quando parla con quel tono deciso, il pensiero dritto, le sue certezze e la musicalità delle sue riflessioni. «Questa mia ultima esplosione, ad esempio, è arrivata dopo un avvenimento spiacevole che ho avuto, dopo essere stato in carcere in seguito a una discussione. Un anno lontano dalla musica mi ha fatto capire molto di me, come uomo e come artista. E la libertà riconquistata mi ha permesso di fare quello che ho fatto, e in pochi mesi ho visto crescere molto il pubblico, non a caso. Ora posso spiegare ancora meglio ai ragazzi che mi seguono i rischi che corrono, indicare loro la strada giusta per essere migliori, per raggiungere i propri obiettivi. È un momento potentissimo per me».
E si sente, così come lo è per la regista. «Mi sto rendendo conto che mi sento a mio agio in situazioni di difficoltà, solo se ho una sfida che può alzare la mia asticella e farmi uscire dalla comfort zone. Reinventarmi e reinventare è fondamentale, come non annoiarmi mai. Credo di trovare in entrambi i miei ultimi lavori la ricerca della purezza in chi non ti aspetti. E ora voglio altri colpi di fulmine, senza etichette e regole. So che ho 31 anni e sono una donna, con un percorso da autrice e uno più commerciale, mi piacerebbe continuare su queste due strade parallele, seguendo idee che mi piacciono. Voglio libertà. Anche nella serialità televisiva: se ho capito qualcosa in questi anni, è che non esistono formati più adatti a un regista, mi basta far sentire la mia voce su ciò che penso». E ci riesce, alla grande. Punta Sacra ora è anche nostra, merito di un’opera (po)etica, lacerante, bella nel senso più ampio del termine. Una terra M.A.D.R.E., citando Chiky.