Timothée Chalamet contro Robert Pattinson, bisogna solo decidere da che parte stare. Il ragazzetto più indiecool in circolazione o l’ex vampiro futuro Batman? Il piccolo divo tutto sorrisi o il veterano del divismo che preferisce nascondersi nell’ombra? A presentare fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia The King, drammone Netflix diretto dall’australiano David Michôd e tratto dagli “Enrichi” di William Shakespeare, è venuto solo il primo, e le ragazzine si sono assiepate presto davanti alle transenne del red carpet. Il fu Edward di Twilight è già dimenticato?
Il gracilino Chalamet sullo schermo pare più Giovanna d’Arco che Enrico V, solenne sovrano già portato sullo schermo da mostri sacri come Laurence Olivier e Kenneth Branagh: «Le loro interpretazioni erano così perfette che ho voluto allontanarmi da quei modelli così ingombranti», confessa Timothée, smilzo anche quando ti si presenta davanti. «Volevo esplorare il suo lato tormentato, rappresentarlo più come essere umano che come re. È umana la sua indecisione nell’affrontare la guerra (contro il Delfino di Francia, interpretato da Pattinson, ndr), è umana la sua sofferenza».
Anche nella coreografatissima battaglia finale c’è più desolazione che eroismo. «Questo non è un film come Il gladiatore o Troy: il mio Enrico non è la rockstar, il bastardo che entra in scena e ammazza tutti. In quest’epoca critichiamo la mascolinità tossica di tanti uomini che rivestono posizioni di potere. Il loro è un esempio di falsa mascolinità, perciò ho voluto mettere in questo re una fragilità nuova: ha potere, certo, ma non è il maschio che si era soliti dipingere».
Il potere Chalamet oggi ce l’ha, come reuccio anche lui, non d’Inghilterra ma di Hollywood. È tra i più amati, lanciati, corteggiati: a Natale arriva con l’atteso Piccole donne di Greta Gerwig, dove terrà testa a Jo March/Saoirse Ronan. «Il potere? Non so ancora cos’è, ma certo ho sentito che a un certo punto le cose per me sono cambiate. Prima ho fatto un sacco di film indipendenti che non si è filato nessuno, dopo Call Me by Your Name di Guadagnino è cambiato tutto. Era un film indipendente anche quello, ma ha avuto una risonanza enorme: non mi era mai capitato prima di ricevere tutta questa attenzione».
Oggi si confronta con la tragedia di Shakespeare, ma uno Shakespeare aggiornato, nel film non si parla la lingua del poeta ma, se mai, quella di Game of Thrones. Anche i modelli di recitazione, dunque, sono più contemporanei. «Adoro il lavoro che ha fatto Heath Ledger su Joker nel Cavaliere oscuro: è lui il motivo per cui ho deciso che avrei fatto l’attore. Ora non vedo l’ora di vedere la versione di Joaquin Phoenix. L’ho incrociato qui a Venezia in hotel, l’ho salutato come avrebbe fatto un ammiratore. È uno degli attori che stimo di più, le sue scene con Philip Seymour Hoffman in The Master di Paul Thomas Anderson sono state una lezione di recitazione, quando ho visto quel film a sedici anni». Chissà chi, un giorno, studierà le scene di Timothée.