Il processo per diffamazione da 50 milioni di dollari intentato da Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard si è trasformato in una serie a puntate che, finora, è di gran lunga più coinvolgente di tante altre che possiamo trovare sulle piattaforme streaming. In particolare quando l’attore è stato chiamato sul banco dei testimoni a ripercorrere non solo il loro rapporto di coppia, ma anche la sua intera esistenza dall’infanzia agli esordi al cinema, fino al successo planetario ottenuto con film campioni di incassi. Ma c’è un altro aspetto particolarmente interessante: probabilmente in nessun altro modo si sarebbe riusciti a scavare così a fondo nella sua vita. Infatti, basta scorrere tra i commenti dei video delle deposizioni per capire che le persone si stanno appassionando più al suo passato che alla questioni inerenti al processo. Un utente su YouTube ha ben sintetizzato questo approccio: “Non sembra nemmeno un caso giudiziario. Questa è una delle più grandi interviste a Johnny Depp di tutti i tempi”. E siccome non aveva tutti i torti, abbiamo provato a trascrivere le sue testimonianze come se fossero effettivamente parte di un’intervista immaginaria. Il risultato potrebbe davvero essere la “più grande intervista di tutti i tempi” all’attore americano.
Johnny, come ti senti in questo momento nel quale stai rivelando al mondo molti aspetti della tua vita privata?
Non posso dire di essere imbarazzato, perché so che sto facendo la cosa giusta.
Partiamo dal principio, dalla tua infanzia. Che educazione hai avuto da piccolo?
Ho avuto una infanzia molto “interessante”. Che pensavo fosse normale fino a una certa età. Sono nato in Kentucky, poi ci siamo trasferiti e spostati ancora varie volte quando ero un bambino, e in quel periodo ero sempre solo con mia madre e i miei fratelli. Dovevamo muoverci costantemente e non è mai stato particolarmente piacevole. Ci siamo trasferiti nel Sud della Florida quando avevo circa sette-otto anni, e poi di nuovo in altri posti perché mia madre era piuttosto imprevedibile.
Che madre è stata per voi?
Aveva la capacità di essere crudele con chiunque. Con me, con le mie sorelle Christy e Debbie e con mio fratello Danny. Così come con mio padre. Essenzialmente poteva diventare piuttosto violenta e altrettanto crudele. Metteva in pratica degli abusi fisici, per esempio dovevi aspettarti che un portacenere ti venisse lanciato per colpirti in testa o di essere picchiato con una scarpa con il tacco, o un telefono, o qualsiasi altra cosa avesse a portata di mano.
Non proprio una madre modello…
Anche per questo in casa nostra non c’erano mai esposti oggetti, per sicurezza. L’unica cosa che si poteva fare davvero era cercare di rimanere fuori dalla sua “linea di tiro”. Ho iniziato a imparare presto a osservarla, e sapevo intuire quando era arrabbiata e avrebbe potuto arrivarmi in testa qualcosa.
Hai parlato di crudeltà, ma fino a che punto si è spinta?
Ci sono varie categorie di violenza fisica e abusi. Lei era costante e sapeva che eravamo tutti scioccati e pronti a proteggerci da eventuali lanci di oggetti. Ma non sapevi mai cosa sarebbe successo. Gli abusi fisici erano costanti, ma ci sottoponeva anche ad abusi verbali come insulti, bullismo, prese in giro su qualsiasi nostro difetto. Mio fratello portava gli occhiali e quindi era diventato il “quattrocchi”, in più aveva i denti storti e quindi mia madre lo definiva “denti di cervo”. Un gioco psicologico orribile.
In generale che persone erano i tuoi genitori, compreso tuo padre?
In generale molto raffinati. Ma mia madre era originaria del Kentucky orientale, che è dove cresci in baracche dove la gente urla invece di parlare. E infatti fin da piccolo sentivo mia mamma urlare in modo violento a mia sorella. Imparavi da subito a sopportare il dolore. In più anch’io sono nato con una caratteristica piuttosto rara e strana. Uno dei miei occhi è normalmente sferico, mentre l’altro ha una forma più conica e quindi il mio cervello si è abituato a vedere di più con l’occhio “buono”, il destro. Lo hanno scoperto quando avevo tre-quattro anni. Il sinistro è un occhio più pigro e mia madre mi prendeva in giro per questo, come per qualsiasi cosa potesse umiliarmi. Per un periodo, da bambino, ho anche indossato una benda sull’occhio destro per rafforzare quello pigro. Ma alla fine non ho recuperato molto, e ancora oggi sono legalmente cieco dall’occhio sinistro.
Hai parlato di abusi fisici. Di che tipo?
L’abuso verbale e psicologico che metteva in atto era quasi peggio delle percosse. Quello fisico era solo dolore, perché impari a sopportarlo. Quello psicologico ed emotivo invece ci ha fatto a pezzi.
Che persona era tuo padre?
Un uomo molto gentile, lui è ancora vivo. È tranquillo. Molto timido. Non è una persona conflittuale in alcun modo. E quando mia madre se la prendeva con noi, è sempre rimasto sorprendentemente calmo. Mentre lei inveiva cose orribili verso di noi, lui stava a guardare nonostante ci infondesse dolore. Lui ingoiava. Non c’è mai stato un momento in cui l’ho visto perdere il controllo e aggredirla o picchiarla, così come risponderle male. Solo un paio di volte non si è trattenuto. Aveva gli occhi che zampillavano di rabbia e che fissavano il vuoto, si vedeva che avrebbe voluto prendere a pugni il muro, infatti una volta lo ha fatto e si è frantumato una mano perché era di cemento. Ma comunque non ha mai toccato mia madre e non ha mai litigato con lei. È sempre rimasto un gentiluomo. Ricordo che io, bambino di cinque anni, pensavo tra me e me: perché non la lascia? Era in grado di mantenere una certa compostezza. È un brav’uomo.
Quante volte ha preso a pugni il muro?
Non ho contato quei momenti, ma penso di averlo visto colpire il muro almeno due, tre volte al massimo. Una volta in particolare, quando si è rotto la mano.
Tuo padre ha mai abusato di te e dei tuoi fratelli?
No, mio padre non è un uomo violento. Anche se allo stesso tempo era in una certa misura alla mercé di mia madre. Ricordo quando tornavo a casa da scuola e avevo una brutta pagella o mi ero messo nei guai e lei gli diceva: “John, portalo fuori e prendi la cintura!”. Lui mi portava in garage e non dimenticherò mai questa cintura bianca in pelle spessa degli anni ’70 con la quale mi infliggeva le punizioni. Ma è interessante una volta che continuavo a dirgli che non avevo fatto niente. Glielo giuravo che non era vero, quello che diceva mamma. Lui mi ha punito, ma molto tempo dopo ha scoperto che avevo detto la verità ed è venuto da me e si è scusato per avermi picchiato con la cintura. Ma mia madre non lo faceva apposta, era stata cresciuta così e io non avevo il potere di cambiare quello che aveva dentro.
Com’è finita la relazione fra i tuoi genitori?
Quando mio padre se ne è andato e l’ha lasciata avevo 15 anni e avevo già lasciato la scuola, ero un musicista e suonavo nei club. Una mattina è andato al lavoro come ogni giorno, ma ha fatto le valigie, le ha caricate in auto e non è più tornato. Ore dopo, mia madre è rientrata a casa, erano circa le 3:30 del pomeriggio. Sulla soglia della porta si è guardata semplicemente attorno come se avesse sentito qualcosa. Le ho detto cosa c’era che non andasse e lei ha risposto soltanto: “Tuo padre se n’è andato”. E io: “Sì, l’ho visto andare al lavoro stamattina”. Ma lei ha ribattuto: “No no, se n’è andato…”. Poi è corsa nella loro camera da letto, ha guardato nell’armadio e nell’appendiabiti le sue cose erano sparite. L’ho vista piuttosto sconvolta.
E tu come hai reagito?
Ho preso l’auto e sono andato sul suo posto di lavoro. Mi sono seduto di fronte a lui e gli ho detto: “Sembra che qualcuno abbia rubato tutti i tuoi vestiti dall’armadio”. E lui ha risposto: “Sì sì, è finita… non ce la faccio più. Ora tu sei l’uomo… sei l’uomo di casa”. Non ho provato una bella sensazione in quel momento.
E poi com’è andata?
Mia madre è diventata molto molto ombrosa ed è caduta in una depressione profonda. Un pomeriggio mi sono svegliato, sono andato in soggiorno e l’ho vista barcollare, era debole e si muoveva come al rallentatore (Johnny si alza e mima la scena, proprio come in uno dei suoi film, ndr). Ho subito capito che era successo qualcosa di terribile, aveva della bava che le usciva dalla bocca. E mentre stavo per chiamare mio zio, la porta si è spalancata e due paramedici sono entrati, l’hanno messa su una barella e trasportata in ospedale per una lavanda gastrica. Aveva preso moltissime pillole per cercare di suicidarsi. Quando è uscita era molto cambiata, la depressione era così profonda che la costringeva a vivere sempre sul divano, era molto dimagrita e sembrava più piccola del suo metro e ottanta.
Tu come hai reagito a quella situazione?
In quel momento ho pensato che mio padre avesse avuto un modo codardo di comportarsi. Ero sconvolto. Ma ho cambiato idea su quel periodo quando, dopo alcuni anni, ho parlato con mio padre.
Come mai?
Gli ho chiesto cosa fosse realmente successo, ormai ero più grande. Mi ha raccontato la storia… (Johnny si commuove, non riesce a proseguire nel racconto e passano alcuni minuti prima che riesca a riprendersi, ndr)
Se è un problema, possiamo passare oltre.
Ok ok… Sono stato molto deluso da lui perché credevo che la fuga fosse stata subdola e codarda. Quel giorno non è stato facile, perché mi aveva salutato per andare al lavoro come se niente fosse. Ma dopo fortunatamente ho capito la verità.
Cos’hai imparato da queste esperienze della tua infanzia?
Che mi sbagliavo sulle mie prime impressioni sulla fuga di mio padre dalla famiglia, e di molto. Una delle migliori lezioni che credo di avere imparato l’ho capita quando Vanessa (Paradis, sua ex compagna, ndr) è rimasta incinta. Sapevo esattamente come crescere i bambini, cioè fare l’opposto di quello che hanno fatto i miei genitori. Non ho mai alzato la voce con loro, non ho mai urlato parolacce, non gli ho mai detto un “no” brusco. Gli ho sempre spiegato le ripercussioni delle mie decisioni.
Passiamo alla tua carriera a Hollywood. Come sei finito nel primo film?
Ci sono finito per caso. Ero un musicista a Los Angeles con la mia band, avevo vent’anni. Poi però sono successe alcune cose. La band si è sciolta e quindi mi ero messo a compilare domande di lavoro per negozi di videocassette o di abbigliamento. Ma Nicolas Cage, che era un amico e attore allora meno conosciuto di oggi, mi ha detto: “Perché non incontri il mio agente? Penso tu sia un attore, potresti farcela”. In quel momento avrei fatto qualsiasi cosa per pagare l’affitto. Ci sono andato, mi ha dato un copione che avrei dovuto leggere al casting di A Nightmare on Elm Street (da noi poi titolato Nightmare – Dal profondo della notte, ndr), e alla fine il regista (Wes Craven, ndr) in qualche modo mi ha preso. Ma prima di allora non avevo avuto alcun desiderio di fare l’attore, ero solo un musicista. Il fatto che ci fossero persone intenzionate a pagarmi, peraltro una somma che non avevo mai visto in vita mia, 1.200 dollari a settimana, mi ha fatto continuare. Poi ho fatto un altro paio di film stupidi, ma nella mia mente ero ancora un musicista e questo lavoro serviva solo per l’affitto. All’improvviso, però, mi sono trovato avviato su quella strada e da un film sono passato a un altro, fino a una serie tv molto nota, 21 Jump Street (in Italia I quattro della scuola di polizia, ndr). Avevo 22 anni.
Che attore eri allora?
All’inizio ero estraneo a questo mondo, non avevo nessuna grande ambizione. Sono sempre stato abbastanza timido e introverso. Poi è avvenuta una metamorfosi molto strana, sono passato dall’essere uno dei quattro di una band, che si battevano insieme per ottenere un contratto discografico, a provare la sensazione di essere al ristorante con la gente che sussurrava indicandomi. Ero a disagio, molto, non mi piaceva. Anche prima non ho mai voluto essere il cantante della band, avere tutta l’attenzione su di me. E invece, all’improvviso, ero da solo a fare i conti con questo tipo di notorietà. Non credo ci sia un modo per abituarcisi. Non lo so, io non ci sono ancora abituato.
Quando ti sei appassionato alla recitazione?
Quando ho capito che era quella la strada che stavo percorrendo. E quando qualsiasi tentativo di tornare alla musica sarebbe stato inutile. Dopo la notorietà ricevuta da quella prima serie tv, ho realizzato nella mia mente e nel cuore che non ci sarebbe stato un ritorno alla musica. Il successo che avevo ottenuto non volevo usarlo per influenzare la carriera musicale. Ho troppo rispetto per la musica. E così ho assecondato chi mi voleva far diventare un teen idol. In seguito ho iniziato a studiare con vari insegnanti, ho letto libri per conoscere la tecnica. È fantastico studiare, ma ti rendi conto che l’unico modo per imparare è farlo. Però mi sono allenato e ho fatto del mio meglio per elaborare il mio personale approccio verso i vari personaggi.
Su quali personaggi per primi hai portato il tuo personale approccio alla recitazione?
Il primo film in cui mi sono sentito davvero bene e nel quale sapevo cosa fare è quello con la regia di Oliver Stone del 1986 (Platoon, ndr).
In seguito, come sei stato scelto per la saga Pirati dei Caraibi?
Sono passati molti anni… La Disney nel 2004 mi aveva offerto un altro film, Hidalgo, su un uomo a cavallo nel deserto. Ho letto la sceneggiatura e non pensavo facesse per me. Ma ho voluto incontrarli ed è uscita un’altra proposta. In quel periodo mia figlia aveva circa tre anni, non guardavo altro che cartoni animati e film di animazione insieme a lei. Quando ho ricevuto la nuova sceneggiatura, nella mia mente è scattato qualcosa per unire il personaggio con le esperienze di quel periodo. Come Willy il Coyote che prende il masso in testa ma ne esce solo con una benda in testa. In pratica ho incorporato quei parametri tipici dei cartoon nel capitano Jack Sparrow. Ho cercato di arrivare a controllare la “sospensione dell’incredulità” sia sulle sue parole che nei suoi movimenti. Infatti era così ridicolo, riusciva a farla sempre franca e come in un cartone animato poteva fare cose che nessun uomo normale può fare. È stato un modo per allargare le possibilità del personaggio.
La tua versione è piaciuta subito alla Disney?
No, mi sono preso il rischio, ma se fosse andato bene sentivo di essere su una buona strada per creare un personaggio accettato sia da bambini di cinque anni che da persone più adulte, dai 45 agli 85 anni.
La precedente sceneggiatura com’era?
Aveva tutti i segni distintivi di un film Disney, una struttura prevedibile in tre atti e il capitano era più simile a un tipo spavaldo a petto nudo, una sorta di eroe. Avevamo idee molto diverse, quindi ho incorporato quelle caratteristiche dei cartoni e ho dato vita a quel personaggio, in seguito con grande piacere anche di Disney.
In che modo apporti le modifiche ai tuoi personaggi di solito?
Nella preparazione ho sempre avuto lo stesso approccio. Cerco una storia passata sulla quale basarmi. Per Edward mani di forbice ho preso spunto da un cane che avevo in quel periodo e dai bambini di mia sorella. Ho pensato che lui avrebbe visto il mondo con innocenza, senza sapere il significato di certe cose. Un bambino innocente, puro, che sperimenta qualcosa per la prima volta. Così come ho detto, con il capitano Jack Sparrow mi sono ispirato ai cartoni animati. Insomma, è come fare una zuppa. Prendi degli ingredienti e li mischi insieme. Nel suo caso, essendo uno che ha vissuto sulle navi molto tempo, mi sono convinto che forse il suo cervello poteva essere stato un po’ intaccato dal sole, così usavo le gambe come se fosse sempre in mare, e quindi a terra non poteva mai essere stabile, mai stare fermo.
Alla fine come valuti Pirati dei Caraibi?
Non ho visto il film… (sorride sornione, ndr) So che è andato molto bene. E volevo continuare a fare meglio. C’è una grande libertà, se conosci bene il personaggio, infatti non era come lo avevano scritto gli sceneggiatori, quindi devi essergli fedele e aggiungere cose tue. Credevo in quel personaggio con tutto il cuore, anche se all’inizio la Disney era un po’ sconvolta.
Com’è cambiata la tua vita dopo quei film di così grande successo?
Anche se esistevo al cinema già da molti anni, dopo è stato tutto completamente diverso. Io e la mia famiglia nella casa di Los Angeles ci siamo ritrovati persone che cercavano di scavalcare o sfondare il cancello per entrare, alcune addirittura vestite da Jack Sparrow… Da quel momento ho dovuto ingaggiare più personale per la sicurezza, ero preoccupato per i miei figli. È stato allora che, da un solo ragazzo della security, sono diventati diversi. Volevo assicurare l’incolumità dei miei figli a casa, a scuola, a Disneyland, in un centro commerciale… ero seguito da orde paparazzi. Certo, ho provato lavori peggiori, non posso lamentarmi, ma sì, dopo quei film mi sono reso conto che l’anonimato era ormai completamente perso. È strano affrontare una condizione simile, quando capisci che non potrai più andare al ristorante o a bere un caffè senza che si trasformi in qualcos’altro. Ma è accettabile un po’ di sacrificio e non posso lamentarmi. Non ne ho il diritto. E poi ti permette di pensare in modo creativo su come portare i figli al parco o a vedere un film. Tutto diventa una missione strategica da pianificare, e questo è accaduto soltanto dopo Pirati dei Caraibi.
Traduzione e stesura di Gianmarco Aimi