“Non sono a Roma prima di mezzanotte, Cami. Se riesco ti raggiungo”. Al telefono Matilda De Angelis dà l’ennesima delusione alla sua coinquilina: lo shooting è andato lungo, sta per saltare un altro sabato sera tra amici. «Figuriamoci, appena arrivo a Termini filo a letto», confessa.
A 22 anni per fare certe scelte devi avere le idee chiare. La nuova stellina del cinema italiano si accomoda per terra, appena fuori dallo studio fotografico. Dismessi culotte e bomber da Pink Lady, allaccia le Dr. Martens consumate fino all’ultimo foro. Si stiracchia nella sua t-shirt bianca. Sembra quella che indossa nel trailer del suo ultimo film, Youtopia, uscito nelle sale il 25 aprile per la regia di Berardo Carboni. Racconta la storia di Matilde, 18enne che si spoglia in webcam per tirare su qualche soldo, fino al giorno in cui decide di mettere all’asta la sua verginità. È il suo secondo film da protagonista, dopo il trionfo dell’esordio in Veloce come il vento. In mezzo, nel giro di due anni, altre piccole parti, la nomination ai David di Donatello e quella come giovane attrice emergente al Festival di Berlino. Con quattro mosse veloci chiude una sigaretta. Un tiro e «di cosa vogliamo parlare?».
Pare tanto sgarbato se inizio chiedendo cosa c’è di te nella tua quasi omonima Matilde, la webcam girl protagonista di Youtopia?
In realtà c’è tanto di Matilde in me, più che altro. Ho fatto un lavoro intenso, totalizzante per arrivare a lei. Mi sono preparata grazie a una coach con il metodo Strasberg, che ti insegna a spogliarti – in tutti i sensi, in questo caso – dei tuoi vestiti, e indossare quelli del tuo personaggio, fino a che ne maneggi talmente bene il bagaglio emotivo da coincidere con lui. Sono andata a scavare nel marcio. Non avevo alcuna voglia di farlo, ma era necessario.
In passato ti sei definita “una ragazza sofferente, che risolveva i problemi nel modo sbagliato”. Questo ti ha aiutata sul set?
Non sono mai stata burrascosa come Matilde, ma ho vissuto quei momenti in cui non sai dove sbattere la testa e prendi una strada che ti sembra l’unica possibile. E invece non lo era. Non ho mai avuto, però, il gusto della trasgressione, perché la mia famiglia mi ha sempre lasciata libera di decidere per me stessa.
Che effetto fa spogliarsi davanti a una telecamera?
Da un paio di anni lo faccio in maniera disinvolta, ma ho dovuto lavorare un bel po’ per liberarmi di una serie di giudizi nei confronti di me stessa. Al primo provino con il regista non ho voluto spogliarmi. Ma dopo che la mia coach mi ha fatto passare dieci giorni davanti alla sua classe senza niente addosso, sul set Berardo non faceva in tempo a dirmi “Ok, spo…”, che ero già nuda.
Dopo Una famiglia di Sebastiano Riso torni a occuparti di sessualità, e a rischiare di fare incazzare parecchia gente.
Io odio la tetta spiattellata sullo schermo, se è fine a se stessa. Se mi metto a nudo, è per fare emergere la parte più fragile dei miei personaggi, la complessità della loro sfera emotiva. Entrambi i film raccontano uno spaccato sociale, e se una cosa ti fa arrabbiare è perché ti ricorda qualcosa di te stesso.
Veloce come il vento usciva due anni fa, e nel frattempo la tua vita è stata sconvolta. Come si maneggia un simile hype?
A livello lavorativo è cambiato tutto, personalmente quasi nulla. La cosa più complicata è stata redimermi dal senso di colpa che provavo, per aver fatto successo senza averlo ardentemente sognato. Vedevo i miei coetanei farsi il culo per anni senza mai sfondare, e ci stavo male. Da buona secchiona ho iniziato a farmi il mazzo, e intanto mi facevo delle gran pere di autostima. Alla fine mi sono detta “ok, hai avuto fortuna, ma poi non ti sei seduta”. Rispetto a tanti colleghi che si sparano i viaggi, io sono molto diversa.
Questo fa di te un’outsider? Ti senti un po’ una punkabbestia a Hollywood?
Sono una che non ostenta, ma nemmeno mette a tacere la sua vera natura. Per questo al Festival di Berlino giravo a piedi scalzi, per questo faccio la cazzona e dico le parolacce ad alta voce. Certa gente si prende troppo sul serio, sembra unta dalla magnificenza di Dio. Il nostro rimane un lavoro, per quanto entusiasmante possa essere.
Ti capita mai di sentirti a disagio nell’ambiente del cinema?
Faccio fatica a parlare di niente, come fanno in molti. È frustrante. Ho l’ossessione di essere autentica, e finisco per sembrare stronza. Ma oggi sono consapevole che fare l’attrice è la mia strada, per cui sono a mio agio con me stessa e con quello che faccio.
I tuoi colleghi secondo te capiscono quanto tu non li possa vedere?
Non faccio nulla per nasconderlo.
Su Instagram hai postato una tua foto con i brufoli. Che messaggio volevi mandare?
Quando avevo 16 anni e mi sentivo un cesso a pedali, mi avrebbe fatto piacere se una tipa che ammiravo mi avesse detto che era come me. Così i social possono essere utili, forse più che per fermare la guerra in Siria.
Per il #MeToo, però, ti sei schierata.
No, non l’ho mai fatto.
Eppure ho letto delle tue dichiarazioni di solidarietà nei confronti di Asia Argento.
Quello perché mi dispiaceva che molte donne l’avessero attaccata, è stato un accanimento orrendo. Però dico: “Apriamo gli occhi, perché succedono cose al di là del nostro piccolo mondo hollywoodiano, bianco, ricco e borghese”. Ci sono donne in fuga da un Paese in guerra, che vengono violentate solo perché passano un confine, e non frega un cazzo di niente a nessuno. Sono un po’ allergica alle mode, non posso farci nulla.
A tuo modo, ti sei appena schierata.
E non sei contento?
Il giornalista che è in me, probabilmente, lo è. Andiamo oltre: da ragazza avresti mai pensato di fidanzarti con un tuo collega (l’attore Andrea Arcangeli, nda)?
A dire il vero il mio primo ragazzo è stato il bassista della mia band. Ma sono certa che Andrea sarà il mio primo e unico fidanzato attore. Lui è uno che si diverte, non si prende troppo sul serio come gli altri. E quando siamo a casa non parliamo mai di lavoro.
E di cosa parlate?
Parliamo un sacco di noi stessi: stiamo assieme da poco più di un anno, e ci diamo una mano a scoprirci a vicenda. Andiamo a vedere mostre, stiamo in silenzio, parliamo di niente, mangiamo gelati. E passiamo ore a sentire musica elettronica.
Hai cambiato gusti musicali?
In effetti in questo periodo sto un po’ in fissa con Bonobo e Tycho, con l’ambient. Tutta colpa di Andrea, mi sa che ora tocca a me convertire lui alla mia roba.
Hai iniziato a suonare la chitarra a 8 anni. Qual è la prima canzone che hai imparato?
Knockin’ on Heaven’s Door. Volavo già molto alto.
Poi il violino, e l’ingresso nella band bolognese Rumba de Bodas.
A 17 anni il tastierista mi ha contattato su Facebook, perché la loro cantante se ne era andata. Dopo una settimana di prove, aprivamo a Vinicio Capossela all’Antoniano. Roba da cagarsi addosso. Invece io mi sono sentita bene come mai prima. Ero come un animaletto sul palco; ho capito subito che quella roba mi avrebbe creato una dipendenza molto pericolosa, pensavo che sarei finita a fare la cantante per sempre.
Come ti immaginavi?
Sono cresciuta con il mito di Björk e Tori Amos, con Radiohead,Talking Heads e Pixies. Anche se con la band facevamo uno strano mix di ska e cumbia. Ma il mio grande amore è Bowie, un genio visionario. Era uomo e era donna, e non gliene fregava un cazzo.
Il posto più assurdo in cui hai suonato?
Dopo un mese eravamo già in tour per l’Inghilterra. Ho passato cinque anni in giro per l’Europa in furgone, facevamo anche i busker per strada. Siamo stati al Boomtown, un festival da centinaia di migliaia di persone: ricordo le scalinate che portavano da un palco all’altro diventate delle cascate di fango, e la gente che volava come nei gironi infernali.
E la volta che hai pensato “se me ne stavo a casa era meglio”?
A Marsiglia. Ho fatto tardi in bagno e gli altri erano usciti dal locale, così mi sono messa a cercarli per le strade del Panier. Ero sola, di notte e senza cellulare. Ho girato due ore, urlavo per chiamarli e pensavo “ma perché cazzo devo morire a 17 anni a Marsiglia?”.
Ti immagino davvero molto fricchettona.
Una zecca bolognese, bravo. Ma avevo la frangetta corta, con una nuvola di capelli dietro. Non i rasta, o quelle minchiate là.
Cilum?
Gli altri molte canne, io zero. Mi fa venire la tachicardia. Ero talmente estasiata per la vita che facevo – in giro per l’Europa, mentre i miei compagni facevano i weekend a Riccione – che non ne sentivo l’esigenza.
Oggi, a 22 anni, casa tua dov’è?
Sono divisa. Più sto lontana da Bologna e più ci voglio tornare, più ci vado e più mi manca Roma. Non riesco ad abituarmi a Roma, per questo mi sembra sempre nuova.
Hai votato alle ultime elezioni?
Sì, ed è andata molto male. E non ho un cazzo da aggiungere.
Qual è il ruolo femminile più figo della storia del cinema?
Aiuto, che domanda difficile. Vuoto totale, al momento ho in mente solo la faccia di Milla Jovovich nel Quinto elemento.
Sicura che non vuoi pensarci meglio?
Diciamo Uma in Pulp Fiction, o Charlize Theron in Mad Max. E poi tutti i supereroi: sono una superfan del genere. Posso dirti la mia poesia preferita, invece?
Certo.
Portami il girasole ch’io lo trapianti, Montale.
Come sei messa con le serie tv?
Ne guardo un sacco. Sto finendo La casa di carta, sono bravi ’sti spagnoli. E poi Stranger Things e Peaky Blinders, e di recente ho recuperato Orange is the New Black e Breaking Bad, e ovviamente ci sono andata sotto. Su Twin Peaks, invece, sospendo il giudizio.
Oddio, lesa maestà al maestro Lynch.
Per me lui è un genio. Ma Twin Peaks l’ho mollato a metà.
E Matilda De Angelis quando la vedremo in una grande serie internazionale?
Io ho fatto Tutto può succedere, a ciascuno il suo. (Ride come una pazza, nda) A parte gli scherzi, devo tutto a quella fiction: mi sono fatta le ossa, ho imparato a stare sul set. Stiamo parlando di un prodotto Rai, pensato per le famiglie: da questo punto di vista Tutto può succedere ha vinto. Mi piacerebbe fare un’altra serie, ma fra un po’: ora sono in decompressione, dopo tre anni molto intensi.
Come facevi a non pensare a Stanis La Rochelle, mentre recitavi con Pietro Sermonti?
Pietro è Stanis, e lo sarà per sempre. Ed è una delle persone che più amo al mondo.
Cosa combinerai dopo Youtopia, allora?
Aspetto. Faccio provini, e attendo delle risposte. Sono in cerca di qualcosa di grosso, di un progetto che mi stimoli per davvero, perché è giusto provare sempre ad alzare l’asticella. E ho una parte piccola, ma molto bella, nel nuovo film di Martin Campbell con Pierce Brosnan e Isabella Rossellini.
Quindi ci stai per lasciare?
Per me lavorare fuori dall’Italia sarebbe un sogno. Non penso agli Stati Uniti, che pure non ci sputerei sopra, sia chiaro, quanto al cinema di Francia e Inghilterra.
Ma non è un casino recitare in inglese?
A me piace da matti. Con il fatto che non è la tua lingua, sei più naturale. “Hai freddo”, ad esempio, l’ho detto almeno tre miliardi di volte, quindi ogni volta mi risulterà complicato dirlo. “Are you cold”, invece, esce dalla bocca senza troppi pensieri. Almeno, a me succede così. Più le battute sono semplici, più diventano difficili da dire.