Ti perdi, in quella voce sbagliata, in quello sguardo in cui si apre l’abisso, in quelle risposte orgogliose e rassegnate. In quei luoghi improbabili, che siano un Anzio fuori stagione o una Praga nascosta, in quei rapporti disarmonici, in quegli amori stonati, in quell’(auto)ironia affilata. Guardi Nico, 1988, che a Venezia 74 ha conquistato la sezione Orizzonti, e mentre ti chiedi perché Susanna Nicchiarelli abbia scelto un periodo così difficile, così poco pop, per raccontare un’icona, ti rendi conto che la sfida sta proprio in quella donna sconfitta ma non vinta. «Non ero felice quand’ero bella», confessa nel film, e lo ripete la regista.
La felicità è sopravvalutata, troppo spesso, e spesso ne sei ostaggio, la vita te la strappa e te la restituisce troppo presto o troppo tardi. Come un figlio che Alain Delon ti dà ma non riconosce e che tu riconquisti fuori tempo massimo. «Chi dice che raccontare questa Nico fosse più difficile? La Nico che racconto è quella che fa la sua musica, che ha riconquistato la sua identità: non è l’immagine della Factory, di Andy Warhol né quella che Lou Reed non vuole nei Velvet Underground, che poi la mollano: tutti la associamo a quel disco con la banana di Warhol sulla cover, ma uscì col titolo Velvet Underground and Nico. Non la volevano. Perché». Qui c’è Christa Päffgen – call me Christa, chiamami col mio nome dice, quasi subito, la protagonista -, non la bellissima musa, oggetto di fantasie planetarie e voce ipnotica. Così diversa da quella profonda, graffiata, ferita degli anni ’80 dalla «sacerdotessa nera, che ha influenzato la musica moderna, dal gothic alla new wave fino a Nick Cave». Da My Heart is Empty a My Only Child: «la mia preferita, lì c’è lei».
«Ho scritto a lungo da sola, ho viaggiato da sola: Manchester dal manager, Parigi dal figlio, in Italia Domenico Petrosino, poi a Praga il manager del suo concerto nell’allora Cecoslovacchia». Questa cineasta ama viaggiare, anche nel tempo: nel passato – da Cosmonauta a La scoperta dell’alba – senza mitizzarlo. Lo dissacra, nell’epoca delle ossessioni vintage, delle nostalgie canaglie per ciò che non c’è più. «Una delle frasi delle sue interviste che mi piace di più è quando gli chiedono se gli anni ’60 sono stati il periodo migliore. E risponde “ci facevamo di tantissimo LSD, sai”. Alla faccia di chi ci rinfaccia sempre la superiorità di quell’epoca». E Nico cresce «nella Berlino Ovest del dopoguerra e muore un anno prima della caduta del Muro: ha conosciuto la povertà, le bombe». Ma a noi piace consegnarla all’epica e all’epoca dei nostri sogni traditi, da noi stessi, del mondo che è stato venduto da chi voleva cambiarlo. Da chi Nico non l’ha mai capito.
Ha viaggiato, Susanna Nicchiarelli, nella vita e nelle tappe di Nico, con l’aiuto di due guide speciali, il figlio Ari e l’ultimo manager della cantante, recentemente scomparso. Poi è arrivata Trine Dyrholm, splendida e coraggiosa attrice danese che spesso gioca con il suo corpo, imbruttendolo, per sbocciare in performance potenti e carismatiche. «Ce l’ho nella testa da Festen, per quelli della nostra generazione un film seminale. E poi La comune, sempre di Vinterberg. Ma innanzitutto mi piace da morire come donna, non solo perché è una grande artista. Avevo bisogno di un’alchimia speciale e sapevo di aver bisogno di aiuto, di intelligenza, lucidità. Perché Nico può essere antipatica e respingente, perché volevo raccontarla con distanza e senza sconti ma anche che le volessero, le volessimo bene. Poteva riuscirci solo una grande attrice».
E vale anche per un cast che è coro e specchio di questa donna spezzata, da Thomas Trabacchi ad Anamaria Marinca, con le loro sensibilità delicate e forse un po’ egoiste e vampire, con quel talento attento e capace di pennellare con pochi tocchi il loro passaggio nella sua vita. Della vecchia Nico, quella giovane, ci sono solo frammenti di Mekas, a voleva fissarla nella memoria, nell’immaginario, lontanissima, eredità struggente di una donna mai realmente esistita, piuttosto creata e usata dal cinismo degli artisti e dell’arte. Nico, Icon, perché nell’anagramma dello pseudonimo c’è tutto.
Tutti vogliono Nico-Icon, il passato, che lei rifiuta, scansa. Lei consuma il presente e guarda al futuro, forse, quando non l’ha più. E allora ci rimane un passato che non conoscevamo, quel sentiero percorso dalla Nicchiarelli in tutta la sua cinematografia, perché nel rapporto dei suoi personaggi con esso e forse anche nel suo e nel nostro, ritrova il senso profondo dell’interpretazione del reale, dell’umanità fragile, anche dell’immagine. «Sono tornata agli anni ’50 e ai ’60, eppure i più lontani mi sembrano proprio questi anni ’80: ricreare una frontiera, per dire, è un’impresa, devi rifare tutto da zero».
La forza del film, che nelle sale italiane arriva con I Wonder Picture (Andrea Romeo e i suoi confermano il loro fiuto, e qui peraltro il direttore del Biografilm di Bologna gioca in casa, in un genere che tra i festival ha riscoperto e nobilitato lui), sta in questo lavoro profondo di destrutturazione parallela: se la biografia degli ultimi mesi di Christa – la sua è una Passione lunga e tormentata, ma anche tenera e esaltante, in pochi meravigliosi momenti – segue un filo narrativo quasi lineare, quello musicale è un volo sghembo, un cinema che è racconto musicale classico e allo stesso tempo moderno, diverso, con i suoi strappi vocali e registici a portarci sempre dove non ci aspettiamo.
Nico, Christa, Susanna, Tryne. Un coro di emozioni, visioni, ruvida bellezza. Come questo film.