L’uno-due decisivo che ti mette knock-out è di Eminem: Phenomenal a fare da Eye of the Tiger del nuovo millennio, Kings Never Die con Gwen Stefani a commentare il gran finale, struggente e tonante, di Southpaw, in Piazza Grande al Festival del film Locarno.
Rocky IV, «Iron» Mike Tyson (ritratto meravigliosamente da un documentario di Toback), il Jake La Motta scorsesiano di Toro scatenato: Fuqua non si nega nulla, pesca nel nostro immaginario cinepugilistico e ci offre la storia del campione Billy «The Great» Hope in un film che non ti lascia fiato, come la sequenza iniziale, in cui una sfida mondiale è in realtà una lotta al massacro in cui la rabbia supera la tecnica, la reazione l’azione, l’attacco la difesa.
Southpaw (che in gergo da pugili brutti sporchi e cattivi vuol dire mancino e in Italia arriverà il 3 settembre) è il film sulla boxe che ti aspetti, eppure ti colpisce come succede al protagonista: a guardia abbassata, facendoti barcollare, piangere, ti fa mancare il respiro. E un attimo dopo il testosterone sale, perché un re, come la speranza (Hope, appunto), non muore mai.
Fuqua, a suo modo, è una certezza: non sa fare cinema di sottrazione, è sempre sopra le righe, dai suoi attori pretende tutto, anche un fisico che da esile diventa granitico, muscolare, esplosivo. Jake Gyllenhall, che da anni costruisce sulla sua fisicità trascurabile una cifra stilistica, qui si trasforma, persino i lineamenti del viso, continuamente storpiati, mutano in una maschera di sofferenza. La postura, non di rado dinoccolata, fuori e dentro il ring sembra continuamente alla ricerca di un posto, una persona, un pensiero a cui aggrapparsi.
La vita di Billy è un puzzle di pezzi sbagliati, infilati a forza in un quadro confuso. Tutti decidono per lui, la mancanza di una famiglia gli ha fatto costruire una tribù di famigli che diventeranno pavide blatte al momento della rovina. È un ragazzo di periferia, come La Motta, è orfano, ex galeotto, è campione del mondo. E’ tutto, ha tutto, ma solo le sue donne contano. Può perdere tutto, ma non loro. Ma si sa, la vita è bastarda, soprattutto quella di chi è l’uomo giusto al momento sbagliato e nel posto sbagliato. E viceversa.
Southpaw non ha idee folgoranti, nè svolte imprevedibili. Southpaw potresti prevederlo come i jab di Hope o l’ultimo uppercut. Southpaw è parabola, favola, cinema sportivo e one man show. Anche se come spalla di Gyllenhall Whitaker è perfetto, soprattutto nel rifiutare il ruolo scontato di sergente di ferro a favore di un padre mancato, un campione stroncato, un uomo spezzato ma non piegato. Ti commuove, Fuqua, perché lo sa fare, senza vergognarsi di colpirti dritto al petto, rischiando di prenderle, ti esalta con quella boxe filmata come raramente è riuscito ai colleghi: sangue, sudore, dolore li senti addosso (e immaginetela proiettata qui, in Ticino, sullo schermo più grande e bello d’Europa).
Non è un capolavoro del genere, perché i suoi riferimenti sono alti ma non li raggiunge. Ma è un ottimo avversario, al loro cospetto non va KO, perde ai punti. E nella sua colonna sonora, nei titoli dei pezzi, c’è tutta la recensione e il senso profondo del film: Beast, Cry for love, Drama never ends, What about the rest of us, This corner. Perché il segreto di Billy non è il ring, ma l’angolo. Lì dove trovava la forza nello sguardo di Mo, della moglie, compagna, colonna Maureen (Rachel McAdams: gli bastano poche scene per rendersi indispensabile nella sua assenza), lì dove esausto, con il respiro affannato che lo squassa, trova la forza della disperazione, della speranza, della pace. Che, ci piaccia o no, può arrivare solo dopo aver vinto la battaglia più importante.